Commenti

Dal Gop a forza tribale

Dal Gop a forza tribale

Per il suprematista bianco Trump, un grand old party spaccato e trasformato A Cleveland, Ohio, alla convention del Grand Old Party iniziata ieri, non si celebra semplicemente l’incoronazione del più controverso candidato alle presidenziali del dopoguerra. Il Partito repubblicano, «nominando» ufficialmente Donald […]

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 19 luglio 2016

A Cleveland, Ohio, alla convention del Grand Old Party iniziata ieri, non si celebra semplicemente l’incoronazione del più controverso candidato alle presidenziali del dopoguerra. Il Partito repubblicano, «nominando» ufficialmente Donald J. Trump al termine di quattro giorni di glorificazione del miliardario newyorkese, sceglie la strada della sua definitiva trasformazione nel partito dell’identità bianca. Come ha detto al New York Times un campione della destra più conservatrice, Pat Buchanan, con Trump il Gop diventa una forza «tribale» e «etnico-nazionalista». Bianca.

Sullo sfondo di un’America lacerata da un crescendo di tensioni e violenze razziali, assume ancora più risalto la scelta strategica di uno dei due pilastri del sistema politico americano di candidarsi alla guida del paese con un personaggio come Trump, peraltro affiancato come vice da uno degli esponenti più beceri della destra oltranzista, Mike Pence. Nel ticket che la convention di Cleveland s’appresta a benedire, c’è la miscela del peggio dell’ideologia reazionaria: xenofobia, omofobia, misoginia. E razzismo. Il tutto condensato nella figura di Trump, che, nelle parole di Charles Murray, interpellato dal New York Times, è «l’uomo sul cavallo bianco, né di destra né di sinistra, ma autoritario, il che a me spaventa».

Detto da un membro dell’American Enterprise Institute, uno dei templi riconosciuti del pensiero conservatore, l’affermazione non va presa alla leggera.

Da tempo ormai la destra americana più dura e fanatica egemonizza il Partito repubblicano, avendo di fatto assunto il controllo della maggioranza dei gruppi parlamentari al senato e alla camera dei rappresentanti e nelle istituzioni legislative e amministrative degli stati governati dal Gop. Sappiamo come la loro presenza asfissiante nel Congresso abbia contrastato e boicottato Obama con il chiaro intento non di fare legittimamente opposizione ma di delegittimare la presidenza del primo africano americano. Nei disegni dell’establishment messo ai margini dal tea party e dalla destra evangelica, l’esito delle primarie presidenziali avrebbe dovuto rappresentare almeno un riequilibrio nei rapporti di forza interni, con la vittoria di un esponente del vecchio apparato, come Jeb Bush, o John Kasich, o almeno di un politico di professione in grado di interagire con la leadership repubblicana, come Marco Rubio e perfino Ted Cruz. Invece, tappa dopo tappa, si è assistito all’ascesa pressoché incontrastata di Donald Trump. Che all’estremismo isterico del tea party aggiunge un’imprevedibilità incontinente e un’esuberanza disinibita in grado di spiazzare anche i repubblicani più cinici e disinvolti. Un combinato mai visto prima in un partito che pur da tempo era uscito dai binari del confronto politico civile e che, quindi, di fatto, preparava la strada proprio all’avvento di un tipo come Trump.

In verità, la storia delle presidenziali abbonda di aspiranti presidenti catapultati nella politica da altri mondi, come generali, miliardari, predicatori. Tutti animati da spirito che oggi definiremmo «antipolitico». E tutti rivolti soprattutto all’elettorato bianco delle classi medie. Nessuno però era arrivato al punto a cui è arrivato Trump, e dove ancora potrebbe arrivare, se a novembre dovesse prevalere su Hillary Clinton.

Questa mutazione del Partito repubblicano, e l’ipoteca su di esso rappresentata da Trump, sarà tuttavia fino all’ultimo contrastata da quel che resta del vecchio establishment repubblicano. Con il rischio, però, che proprio il boicottaggio ormai esplicito, aperto, di personaggi come i Bush, John McCain, Mitt Romney possa in realtà dare ulteriore spinta a The Donald, alimentando a suo favore il contrasto, abilmente coltivato dal tycoon newyorkese, tra lui, audace impavido combattente, e loro, perdenti e destinati a nuove sconfitte.

La kermesse alla Quicken Loans Arena di Cleveland consegna plasticamente l’immagine di un partito spaccato, con l’assenza dei Bush, di McCain e Romney, e dello stesso John Kasich, governatore dell’Ohio e contendente battuto per la nomination, che si è sottratto perfino al dovere degli onori di casa alla convention del suo partito nel suo stato. Né ci saranno candidati alle elezioni per il senato e la camera e la carica di governatore, come Marco Rubio, Kelly Ayotte, Nikki Haley, Mia Love. Temono l’associazione con un candidato che potrebbe portare, con la sua sconfitta, così talmente carica di significati, alla catastrofe del partito anche nelle elezioni per il Congresso e per quelle locali celebrate insieme alle presidenziali di novembre. Più semplicemente è considerata altamente masochistica l’associazione con il campione del partito dell’identità bianca in stati dove le minoranze, insieme, sono già maggioranza. Tema, peraltro, che interessa anche la partita presidenziale di Trump, sulla carta già sconfitto in stati in bilico ma cruciali per l’esito delle presidenziali dove è decisivo il voto delle minoranze.

In questa «chimica» politica senza precedenti, mentre succede di tutto nel pianeta, anche lo scenario internazionale nella convention assume contorni tra il paradosso e il revanscismo parolaio. In Trump l’isolazionismo si combina con posture imperiali che l’America, nel mondo d’oggi, non è in grado di reggere neppure su un piano propagandistico senza apparire ridicola, come certe sparate contro la Cina o certi toni ultimativi verso l’Europa.

La forza di Trump resta tuttavia nel fatto che le elezioni di novembre non saranno un referendum su di lui, ma una scelta tra lui e Hillary Clinton, una competizione nella quale, eliminato Sanders con la sua sfida programmatica, conteranno fatalmente, più che i programmi, le rispettive personalità, le rispettive storie, e quella di Hillary è appesantita da troppe negatività. I sondaggi continuano a fotografare la fatica di Clinton a distanziare il rivale, e anzi alcuni registrano un sorpasso di Trump. Prospettiva che inquieta l’America liberal. E così riprende quota tra i progressisti, scherzando ma non troppo, la tentazione di scappare in Canada o in Nuova Zelanda, lontano da un paese che potrebbe consegnarsi a un suprematista bianco.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento