Una delle tante conseguenze degli eventi estremi sono i danni collegati ai pericoli meteorologici. I quattro principali sono inondazioni, cicloni tropicali, tempeste invernali (in Europa) e forti temporali, che oggi causano perdite economiche globali stimate in 200 miliardi di dollari l’anno.

Il dato è stato presentato ieri dal centro di ricerca di Swiss Re Institute, legato all’omonima società di assicurazioni, che ogni anno pubblica un rapporto dedicato al tema dell’impatto dei cambiamenti climatici, realizzato sulla base delle conclusioni del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc). Changing climates: the heat is (still) on analizza le aree in cui è probabile che i pericoli si intensifichino e le sovrappone alle proprie stime, fornendo una visione delle possibili implicazioni economiche dirette se le catastrofi naturali legate al clima si andranno a intensificare a causa del cambiamento climatico.

Ad oggi, l’economia che perde di più è quella degli Stati uniti, che subisce danni pari allo 0,4% del prodotto interno lordo (97 miliardi di dollari), mentre le Filippine perdono il 3% del proprio Pil (per un valore 12 miliardi di dollari). L’Italia è a metà classifica dato che occupa la diciassettesima posizione sui 36 Paesi analizzati da Swiss Re: la riduzione del Pil stimato nel nostro Paese è nell’ordine dello 0,11%, quasi integralmente relativi ai danni causati dalle alluvioni e dalla mancata gestione del rischio idrogeologico.

Nel 2023 in Italia ci sono stati in tutto ben 378 eventi meteorologici estremi, +22% rispetto al 2022 secondo Legambiente. Lo scorso anno sono risultate in crescita soprattutto alluvioni ed esondazioni fluviali (+170%), ma anche i problemi collegati alle temperature record registrate nelle aree urbane (+150%). La conta dei danni supera gli 11 miliardi di euro solo per i due eventi più significativi, cioè le alluvioni che hanno colpito l’Emilia-Romagna (due volte, a maggio) e la Toscana (nel mese di novembre).

Swiss Re, sulla base dei dati e delle proiezioni dell’Ipcc, prevede che il rischio di alluvioni si intensifichi a livello globale, ma ad oggi la causa principale di perdite economiche legate agli eventi atmosferici – tanto negli Stati Uniti quanto nei Paesi dell’Asia orientale e sudorientale – sono i cicloni tropicali. Se in termini assoluti le perdite economiche dovute agli eventi meteorologici negli Stati Uniti sono le più elevate al mondo, è soprattutto a causa degli uragani.

Secondo il report, il primo passo per ridurre le perdite è ridurre il potenziale di perdita attraverso misure di adattamento. Esempi di azioni di adattamento sono l’applicazione dei codici edilizi, l’aumento della protezione contro le inondazioni e l’attenzione agli insediamenti nelle aree soggette a pericoli naturali. In definitiva, le perdite in percentuale del Pil di ciascun Paese dipenderanno dall’adattamento futuro, dalla riduzione delle perdite e dalla prevenzione.

Per Swiss Re la diffusione annuale di un report dedicato al rischio e ai cambiamenti climatici è l’occasione di stimolare uno degli ambiti di attività della società specializzate nei settori delle assicurazioni e delle ri-assicurazioni. L’Italia, ad esempio, è tra i Paesi meno abituati ad assicurarsi contro il rischio di danni ambientali causati dagli eventi estremi. Dei danni subiti tra il 1980 e il 2020, appena il 5% risultava assicurato, contro una media europea del 27%, secondo la Banca centrale europea.

Per Swiss Re, lo scorso anno i sinistri legati a catastrofi naturali di grandi dimensioni hanno comportato risarcimenti per 1,3 miliardi di dollari, al di sotto del budget di 1,7 miliardi di dollari stimato dalla società, che ha chiuso il bilancio 2023 con utili per 3,2 miliardi di dollari.

La pubblicazione è in ogni caso funzionale ad accendere l’attenzione dell’opinione pubblica su un tema non più procastinabile: già il rapporto 2021 The economics of climate change: no action not an option evidenziava che se il riscaldamento globale rimane sulla traiettoria attuale il mondo potrebbe perdere fino al 7-10% del prodotto interno lordo entro la metà del secolo. Ma non chiamiamola decrescita, perché è tutt’altro che felice.