Dal 7 ottobre Israele all’affannosa ricerca della deterrenza perduta
Israele/Palestina La dottrina è infliggere perdite catastrofiche finché Gaza sia inabitabile. Addio al diritto umanitario. Ma il comando di Hamas non è sgominato e i 240 ostaggi non sono stati liberati. Complice la repressione è silenzio su resistenza civile alla guerra e dialogo. Ma l’occasione c’è: è in pezzi la gestione del conflitto con i palestinesi su cui «Bibi» ha costruito carriera e potere
Israele/Palestina La dottrina è infliggere perdite catastrofiche finché Gaza sia inabitabile. Addio al diritto umanitario. Ma il comando di Hamas non è sgominato e i 240 ostaggi non sono stati liberati. Complice la repressione è silenzio su resistenza civile alla guerra e dialogo. Ma l’occasione c’è: è in pezzi la gestione del conflitto con i palestinesi su cui «Bibi» ha costruito carriera e potere
I giorni che ci separano da quel 7 ottobre sono quaranta – il numero biblico della tribolazione e della penitenza. A quel massacro (1.200 morti, in larga parte civili), il fuoco israeliano su Gaza ha fatto seguire circa 11.500 morti palestinesi, e 30.000 feriti lasciati senza ospedali né acqua. Due terzi delle vittime e degli sfollati siano donne e bambini, esposti al freddo e alla pioggia di questi giorni. Oltre agli operatori umanitari, sono stati uccisi funzionari ONU (103) e giornalisti (50).
Ad oggi, nonostante dichiari di aver colpito migliaia di operativi di Hamas, Israele (qualche decina di caduti) non ne ha sgominato il comando. Non ne ha identificato e distrutto il quartier generale, per quanto le IDF continuino a setacciare il centralissimo ospedale al-Shifa, e gli altri ospedali colpiti. Il diritto umanitario di guerra – giova ricordarlo – parla di proporzionalità, proibendo di causare danni alle infrastrutture civili in eccesso rispetto ai concreti e immediati benefici militari attesi. Ma c’è di più: nessuna liberazione dei 240 ostaggi. Presumibilmente sono tenuti in diversi luoghi: circostanza che, nel pieno dei combattimenti, complica ulteriormente i negoziati per il rilascio.
L’andamento della guerra è segnato dall’affannoso tentativo di ristabilire la deterrenza perduta il 7 ottobre. La dottrina resta infliggere perdite catastrofiche al nemico, fino a rendere inabitabile Gaza. Nel combattere l’ISIS i comandi monitoravano per giorni gli spostamenti dei capi del Califfato prima di premere il grilletto, così da contenere le perdite civili. I dati di Action on Armed Violence mostrano come nel 2014 ogni airstrike isreaeliano provocava in media 2,5 morti, mentre dopo il 7 ottobre tale media è salita a 10,1. Ignorando le Convenzioni di Ginevra, la giustificazione di questa condotta da parte della leadership israeliana richiama il diritto assoluto alla difesa e la guerra di civiltà, non lesinando una retorica che disumanizza il nemico, con tanto di riferimenti alla bibbia ebraica (lo sterminio degli amaleciti).
Il peso militare, politico ed economico con cui gli Stati uniti si sono subito posti accanto a Israele, mettendo in azione le portaerei, ha aiutato ad assorbire e contenere le dinamiche di innesco dell’escalation regionale. La Casa Bianca si trova nella situazione di sostenere Israele in guerra, mentre ritiene la guida stessa di Israele in guerra un rischio per una conflagrazione più ampia. Fra i palestinesi di Cisgiordania si contano in 40 giorni 200 morti, con la Francia che parla apertamente della ‘politica del terrore’ dei coloni. L’alleato Erdogan lancia minacce aperte allo ‘stato terrorista’ di Israele, mentre per la prima volta i sauditi hanno esplicitamente evocato la necessità di rivedere l’ordine internazionale se esso non è in grado di portare Netanyahu a render conto del proprio operato.
Chi volesse banalizzare, parlando di una nuova fase di insorgenza palestinese, in un semplice ciclo di vendette e ritorsioni, si mostrerebbe cieco rispetto al grado di coinvolgimento emotivo e simbolico che Gaza desta in quella larga parte di mondo che vi trova conferma dei doppi standard dell’Occidente. Si può guardare, ad esempio, al mondo musulmano oltre il mondo palestinese e quello arabo: significativamente, trovando il pretesto in mesi di provocazioni dalla destra religiosa al governo, Hamas non ha chiamato alla liberazione palestinese, ma ha significativamente chiamato il 7 ottobre ‘Inondazione del Tempio di al-Aqsa”.
Dentro Israele la sinistra, rivitalizzata dalle imponenti manifestazioni contro la riforma giudiziaria, non ha retto lo shock della carneficina del 7 ottobre (inclusa la ferocia con cui sono stati colpiti gli attivisti anti-occupazione) e l’impatto della mobilitazione bellica. Complice anche la repressione sulle voci dissidenti, sugli spazi di resistenza civile e dialogo fra comunità sembra essere caduto il silenzio. Eppure, l’occasione non mancherebbe: il 7 ottobre è andata in frantumi la ‘gestione del conflitto con i palestinesi’ su cui Netanyahu ha costruito anni di carriera e potere, gli Usa dichiarano inaccettabile il proposito di ritorno a un controllo diretto di Gaza, e mano a mano che si avvicinano le elezioni Washington dovrà tirare il freno.
Come mostrano le critiche interne al Likud, per Netanyahu finché c’è guerra c’è speranza: questo termine, a ben vedere, lo rende ancor più pericoloso. Come ha scritto su Magazine +972 Heggai Matar, è probabile che in Israele domani vedremo agglutinarsi, accanto alla destra nazionaliste e religiosa che oggi cavalca guerra e domani lamenterà che non è stata portata fino a fondo, un polo centrista che cercherà una semplificazione del territorio e forme di disimpegno e intervento selettive (es. annessione dei territori occupati al di qua del muro di separazione, e interventi militari periodici dall’altra parte). Potrebbe poi prendere corpo, nel campo del centro-sinistra sionista, laburisti inclusi, un raggruppamento attorno al generale-eroe Yair Golan, che il 7 ottobre, da solo, si è lanciato in incursioni per salvare i cittadini dalla carneficina. Stanti condizioni che abbassano il senso di insicurezza esistenziale che la divisa società israeliana respira dopo il 7 ottobre – spiega Matar – da questi due poli potrebbe arrivare la convergenza necessaria a frenare la violenza dei coloni, indissolubilmente legata allo zelo religioso della destra, allontanando l’immagine di stato d’apartheid.
Proprio qui si trova però uno dei problemi più spinosi all’orizzonte. Molte delle formazioni che si sono mosse per aprire fronti attorno a Israele, dallo Yemen al Libano, passando per Iraq e Siria, sono state foraggiate nel tempo da Teheran, che vede in queste milizie una compensazione e un deterrente strategico rispetto alla potenza nucleare israeliana. Tuttavia, come ha sottolineato l’ex premier israeliano Ehud Barak, l’Iran sarebbe ormai un paese-soglia nel campo nucleare: non sarebbe più nella capacità di Israele impedire che arrivi all’atomica.
Le tettoniche della deterrenza su scala macroregionale sono in movimento. Il problema di come si riorganizzerà il campo politico palestinese passa anche dai complessi rapporti fra l’Iran e i paesi arabi, e lo scontro, assai più ampio nel mondo islamico, sul ruolo della religione nel conferire legittimità politica. Non dimenticando però anche il ruolo possibile e auspicabile in questa fase della “sinistra palestinese” residua ma che ha una storica tradizione, vale a dire a cominciare ora dalla componente laica, nazionalista e civica.
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