Manifestazioni per la Palestina e manganelli. Sta diventando una inaccettabile costante: ieri, a Pisa, Firenze, Catania; pochi giorni fa ai presidi sotto la Rai, a Napoli, Torino e Bologna.

La deriva autoritaria che ha la sua veste istituzionale nella riforma sul premierato si esercita nelle piazze sotto forma di violenza delle forze di polizia, nelle aule di tribunale con la repressione del dissenso, nello spazio pubblico con l’espulsione del pensiero divergente.

Quasi sembra di vivere in una distopia, non nella realtà: sul serio non si può nemmeno pronunciare la parola «genocidio» se accostata alla Palestina e Israele? Non si può manifestare per un cessate il fuoco, per la pace?

Sembra quasi una commedia dell’assurdo, se non stessimo manifestando per una tragedia e se non fosse che stiamo scivolando verso il baratro.

Manifestare per la pace, per il lavoro, manifestare in sé, è agire e attuare la Costituzione; una democrazia che impedisce la libertà di espressione, la discussione, il dibattito, abbandona i suoi presupposti, le condizioni minime di una «democrazia liberale».

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È un filo nero quello della repressione del dissenso che lega decreti sicurezza che si susseguono senza soluzione di continuità, normalizzando, con un ossimoro, presunte emergenze e stabilizzando eccezioni (violazioni) dei diritti; prassi delle procure che considerano la protesta eversiva rispetto alla democrazia; pronunce della magistratura civile e amministrativa che infliggono risarcimenti a chi contesta scelte politiche; provvedimenti di prefetti e questori che sottraggono spazi pubblici alle manifestazioni e comminano fogli di via agli eco-attivisti per le azioni di disobbedienza civile; limitazioni delle commissioni di garanzia agli scioperi; nuovi reati e pene per il dissenso, il disagio sociale e la solidarietà; daspo urbano per chi disturba il decoro della città.

È un filo che sta tessendo una cappa nera, che si diffonde a partire dai margini: dagli «antagonisti», come tendenzialmente vengono qualificati tutti i manifestanti, che si sa sono tutti violenti; dai migranti, che non sono «noi», non sono cittadini e forse anche un poco meno umani; dai poveri, che in fondo qualche colpa per la loro situazione l’avranno pure.

E la cappa diviene sempre più asfissiante, il diritto penale del nemico diviene panpenalismo, perché chi è controcorrente, con la materialità della sua esistenza o con la manifestazione delle sue idee, è un nemico. Preciso: occorre denunciare e resistere all’espulsione sociale e politica di ciascuna persona, non solo perché è un passo verso altre repressioni, ma in quanto tale; ogni diritto negato a qualsiasi persona, senza che si reagisca, rende tutti un po’ meno democratici, un po’ meno umani.

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La logica della guerra, che non chiede di ragionare, ma di obbedire, e l’egemonia del modello neoliberista, che nega alternative e deve blindarsi per sopravvivere agli effetti brutali che produce (sulle persone e sulla natura), convergono naturalmente (del resto muovono dalla stessa radice di sopraffazione) nella volontà di anestetizzare il conflitto.

La passività, l’acquiescenza, l’ignavia sono la strada più comoda. Ed è un percorso facilitato da scuola e università che le controriforme tendono a ridurre a mercati dove acquistare nozioni (i crediti) da spendere nel mercato del lavoro, sterilizzandone le potenzialità come luoghi di creazione e discussione di sapere critico.

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E se ancora vi sono resistenze, se ancora studentesse e studenti scendono in piazza, le cariche della polizia e i processi a carico dei manifestanti che poi ne seguono, si incaricano della repressione e della dissuasione.

È una democrazia quella che intimida chi manifesta, delegittima chi esprime opinioni controcorrente, accetta campi di detenzione e morti alle frontiere, punisce ed espelle chi vive condizioni di disagio?

Sicuramente non è la democrazia disegnata dalla Costituzione, che persegue la rimozione dei condizionamenti economici e sociali, sancisce il diritto di asilo, ripudia la guerra, promuove la partecipazione effettiva. Della democrazia non basta mantenere il nome.

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Sono tanti i segnali inquietanti che ci circondano, cerchiamo di vederli, comprendere le loro connessioni, denunciamo la violenza della polizia, in sé e quale espressione fisica della violenza «di sistema», continuiamo ostinatamente a manifestare e manteniamo aperto lo spazio della critica dell’esistente.