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Da Kherson la «pace» di Biden non si vede

Da Kherson la «pace» di Biden non si vedeUna casa distrutta da bombardamenti russi nella città di Arhanhelske, da poco liberata dalle forze ucraine – Ap/Evgeniy Maloletka

Crisi ucraina Bombardamenti russi a tappeto per tutto il giorno mentre la stampa rilanciava la telefonata tra la Casa bianca e il presidente Zelensky. «Kiev disponibile a una trattativa», dicono gli Stati uniti. Ma sul campo va sempre peggio

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 13 dicembre 2022

Andriy piange disperato dietro un’ambulanza mentre copre e scopre con un sacco nero un cane. Non capisce più nulla, è in evidente stato confusionale. Un conoscente si avvicina per aiutarlo ma lui prima lo ringrazia e poi lo caccia via.

«È IL TUO CANE?», chiediamo passando, solo per dire qualcosa. «No, era un mio amico, si chiama Fedor». Un infermiere prova a distrarlo ma lui si mette a urlare, Fedor non lo deve toccare nessuno. Dall’altra parte della strada, in un ampio parcheggio, una coperta isotermica copre un corpo morto. Un uomo continua a fissarlo e piange anche lui disperato. Qui però gli infermieri lo toccano e i poliziotti raccolgono dati. L’uomo non urla, piange solo.

Siamo di fronte a un centro per mutilati, in particolare qui erano ospitate persone senza le braccia, e Andriy lavorava come volontario in cambio di vitto e alloggio. Fino alle 8.30 di ieri mattina, quando i missili russi hanno colpito la zona e l’onda d’urto ha scaraventato Fedor contro il muro facendogli crollare i vetri della finestra sul dorso. L’animale si è trascinato per qualche metro ed è spirato al centro della strada; la donna invece è morta sul colpo, quasi decapitata da un frammento.

Dall’altra parte della strada le lamiere sono deformate. Il calore delle esplosioni le ha divelte e all’interno di un capannone si intravedono alcuni mezzi della polizia carbonizzati. L’obiettivo probabilmente era quello, a più di 200 metri di distanza. «Danni collaterali» li chiamano, ma bisognerebbe spiegarlo ad Andriy e alla signora che seduta in macchina continua a guardare foto della sorella che giace sull’asfalto e piange a dirotto.

È SOLO IL PRIMO dei bombardamenti che colpiscono Kherson, per tutto il giorno le bombe si abbattono sulle case dei civili nella zona nord, qui però non c’è nulla. Solo villette o vecchie case a due piani ingentilite da un po’ di intonaco con i tetti in fiamme.

Nessun edificio militare o infrastruttura nel raggio di almeno due chilometri. Seguiamo i pompieri che instancabili corrono da una casa all’altra per evitare che gli incendi si propaghino, parlano pochissimo ma non sono mai scortesi.

Nel tardo pomeriggio gli ucraini rispondono e dall’altra parte del fiume si alza una fitta coltre nera da una zona che sembra coincidere con i dock fluviali. Nessuno si sporge troppo per guardare dalla riva: i russi sparano e la distanza è breve. A riparare dal fuoco c’è solo una schiera di case di legno, troppo poco per un mortaio. C’è anche chi parla di cecchini piazzati come deterrenti per le manovre ucraine, ma finora non ne abbiamo prove dirette.

AL TRAMONTO Mosca risponde di nuovo e a poca distanza dal famoso ponte Antonivskyi, in parte sommerso dalle acque, una grande casa viene colpita. I pompieri agiscono in fretta, ma sono troppo esposti e lo sanno. Poco dopo i russi colpiscono di nuovo, è il «double tap», la strategia che mira a colpire di nuovo lo stesso punto per fare più danni possibile anche tra i soccorritori. Ieri alla bomba è andata male: i pompieri stanno tutti bene.

Mentre le radio e le televisioni rilanciavano la notizia dei colloqui telefonici di Zelensky e Biden, qui a Kherson i boati erano costanti. Parlare di pace ora è anacronistico, nonostante le dichiarazioni attribuite all’ufficio stampa della Casa bianca riguardo alla «disponibilità» del presidente ucraino ad aprire una trattativa «sulla base dei principi previsti dalla Carta delle Nazioni unite» e in un ampio consesso internazionale.

I «principi» che il leader di Kiev vorrebbe rispettati sono quelli dell’integrità territoriale e il contesto dovrebbe essere quello di una grande conferenza di pace in cui la Russia sia in posizione di minoranza e non abbia possibilità di veto (come invece potrebbe essere all’Onu). Ma sembra molto difficile che Zelensky si faccia convincere a cedere Mariupol e parte dell’oblast di Zaporizhzhia a Putin.

SULLA CRIMEA e il Donbass separatista forse c’è qualche spiraglio, ma non apertamente, la diplomazia si muove su diversi piani e quello più superficiale è il meno credibile. Al momento rispetto alle richieste russe c’è un abisso: Mosca vorrebbe che i territori occupati siano considerati già parte della Federazione russa. Per Zelensky accettare sarebbe la fine. Dall’altro lato, giustificare decine di morti senza nemmeno una conquista territoriale sarebbe impossibile per lo «zar».

Intanto in Ucraina la situazione è sempre peggiore. Secondo il ministro degli esteri Smytro Kuleba al momento anche un «blackout totale» è diventato uno scenario «piuttosto realistico». Domenica le autorità regionali di Odessa hanno detto che ci vorranno tre mesi per ripristinare le linee cittadine e la situazione nel più importante porto del Mar nero peggiora progressivamente.

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