Da Lampedusa a Caserta, il caporalato lungo la linea dei campi
La storia A Gian Luca Castaldi, che cerca di aiutare gli schiavi dell'agricoltura, la Caritas ha assegnato un furgoncino bianco con cui battere il territorio... Lui ha incontrato, tra gli altri, Mamadou Kuassi Pii Adama, la cui storia è narrata dal film di Garrone «Io Capitano», ma soltanto fino a Lampedusa: ecco il seguito fuoricampo
La storia A Gian Luca Castaldi, che cerca di aiutare gli schiavi dell'agricoltura, la Caritas ha assegnato un furgoncino bianco con cui battere il territorio... Lui ha incontrato, tra gli altri, Mamadou Kuassi Pii Adama, la cui storia è narrata dal film di Garrone «Io Capitano», ma soltanto fino a Lampedusa: ecco il seguito fuoricampo
La Stazione di Villa Literno è il trailer della fiction in cui ci stiamo per infilare: il vecchio ferroviere in pensione sceso di casa in canottiera che gonfio di birra fa avanti e indietro lamentandosi del degrado delle ferrovie e tutt’intorno facce di mezzo mondo. Lingue tanto sciolte ai cellulari quanto sincopate nell’ordinare un caffè. Tutti abbacchiati dalla fatica e dal calore. Poi, a tirarci fuori da quest’afoso limbo interraziale, arriva Gian Luca con la sua Citroen Cactus, sotto un dito di polvere presumibilmente gialla e nera. Cranio rasato, collo taurino, lobi inanellati, tatuaggi tribali: Gian Luca Castaldi sembra un gangsta-rapper invece è un ex comboniano nato a Saronno, che dopo anni tumultuosi in Africa ha mollato i voti per sbarcare nella Soweto d’Europa, Castel Volturno, sfangandola come muratore. Quindi la strage di San Gennaro del 2008 per mano dei killer casalesi di Giuseppe Setola. La rivolta dei neri e lui che si ritrova a far da paciere. La Caritas di Caserta lo nota e lo assume su due piedi come mediatore culturale. Occuparsi dei migranti diventa quindi la sua vita.
Prima dal Terzo Mondo in Occidente e poi al di dentro dell’Occidente. Seguendo i ritmi dei raccolti o i capricci industriali: un mese a Foggia, uno nella Tuscia, uno nel Triveneto… smarrendo anche quel brandello di solidità dato da una casa, un giro sociale, un amore. Si transita come manodopera in affitto, senza sedimentarsi da nessuna parte. Così il casertano, con il suo strano connubio di residenzialità e campo d’atterraggio, diventa simbolo di casa, sia di quella perduta, che di quella da creare.
A Gian Luca, la Caritas assegna pure un furgoncino bianco con cui batte il territorio quando un bel giorno… «dalla Calabria mi arriva un ragazzo, Mamadou, che era stato ferito negli scontri di Rosarno così subito riesco a fargli avere un permesso di soggiorno. Uno sveglio, tanto che me lo prendo a darmi una mano in Caritas… e quello che fa? non mi butta sotto col furgoncino il diacono della parrocchia?! Ovviamente,» taglia corto Gian Luca, «ho detto che guidavo io, sennò altro che Io Capitano… quello mi finiva dritto dritto ne Le ali della libertà». Citazioni cinefile di cui ci sfugge il senso. Allora lui precisa: «Mamadou Kuassi Pii Adama, la storia del film di Garrone è ispirata alla sua vita. Fino a Lampedusa. Quello che poi gli succede dopo come schiavo del tabacco… ma ora lo incontriamo e ve lo racconta direttamente lui».
Attenzione, quando Gian Luca dice ’schiavo del tabacco’ non si riferisce al tabagista che non riesce a smettere, ma al destino in sorte al bracciante africano che coltiva tabacco nell’agro aversano. Incontriamo Mamadou un’ora dopo nel campetto di calcio della Caritas di Castel Volturno: è un bel giovanottone, con gli occhi buoni e un sorriso intatto. Le mani no. Quelle sono un poco rovinate, «sai, alla lunga» ci racconta, «le foglie del tabacco ti cancellano le impronte digitali… spariscono, tanto che alla mia ambasciata mi dissero che messo così, il passaporto non me lo potevano proprio dare». Senza identità Mamadou si sentì, in modo profondissimo, un clandestino cronico, un clandestino dell’anima. Incatenato a quei campi dalle cinque del mattino alle nove di sera per venticinque euro.
Dopo due anni, visto che oltre al «bambara» della Costa d’Avorio, parla anche inglese, francese, italiano, tedesco e arabo, Mamadou passa da bracciante a caposquadra. Paga e fatica però restano esattamente le stesse. Solo che essendo un lavoratore oramai esperto (sul campo le foglie di tabacco non vengono semplicemente raccolte ma anche cucite insieme, umidificate e stivate a regola d’arte), Mamadou diventa indispensabile ed è perfino coinvolto nelle trattative con i compratori delle multinazionali; parliamo di persone legate a Philip Morris, British American Tobacco e Imperial Brands. «Quella vita però mi stava riducendo a specie di zoombie… ma che alternativa tenevo? Nessuna. Ero veramente disperato». Poi succede che Gian Luca Castaldi viene contattato dal Guardian. Il quotidiano britannico vuole fare un’inchiesta sull’industria del tabacco in provincia di Caserta, così Castaldi si attiva. E coinvolge a sua volta alcuni di quei lavoratori che se la sentono di rischiare. Li istruisce su come geo-localizzare i loro spostamenti tra le varie piantagioni per poi filmare di nascosto le condizioni di semi-schiavitù in cui lavorano al nero. L’inchiesta è una bomba esplode a livello mediatico in tutta Europa e le multinazionali, che su quel sistema chiudevano un occhio facendo profitti enormi, finiscono nel mirino di inchieste non solo giornalistiche. «A quel punto qualcosa cambia, sì, ma io…» continua Mamadou, «… io rivolevo indietro le mie impronte digitali perché senza passaporto restavo sempre uno schiavo».
Ancora una volta sono Gian Luca e la Caritas a occuparsi di lui e col tempo non solo le impronte digitali sono riapparse ma un bel giorno una giornalista lo mette in contatto con Matteo Garrone che si aggira nei paraggi in cerca di storie per il cinema. Con Io Capitano ispirato alla sua vita a sud di Lampedusa, a Mamadou arriva un po’ di notorietà. Ora il suo destino è diventato quello di comunicare a noi ’bianchi’ le disfunzioni crudeli delle marginalità dei migranti e del neo schiavismo. Un nero che parla ai bianchi che fa da contraltare a un bianco, Gian Luca, che parla ai neri: intreccio di due esistenze parallele che si sono scontrate e incontrate nei meandri degli scivolamenti identitari.
A distanza di quasi due decenni, il loro rapporto di amicizia va avanti con affetto ma sempre con una certa ruvidità. Come quando Mamadou, in tour promozionale per il film a Hollywood, ha conosciuto addirittura Sting, il mito assoluto di Gian Luca! Parte a quel punto un martellamento telefonico per implorare Mamadou di passargli Sting al cellulare… ma Mamadou niente, manco ci prova. Risultato? Blocco totale, silenzio social e punizione tecnologica da parte di Gian Luca. Che però, dopo qualche ora si è come cancellata da sola. Insomma, una storia, quella di Mamadou, a lieto fine.
E le altre? Cosa sappiamo dei tanti Mamadou che non ce l’hanno fatta?
È pensiero dominante che nelle nostre campagne l’umanità sia divisa in due: i caporali da una parte, gli schiavi dall’altra. Invece pare non sia più tanto così: esistono in realtà, nel palcoscenico di questa tragedia, tante altre maschere. I corpi ad ore, che siano le braccia per la terra o quelle per il sesso a cottimo, passano tra tante mani, molte delle quali sporche di sangue. Altre sporche di vuoto. Altre ancora mani tese, pulite, pronte all’ascolto.
Così, mentre i media ingigantiscono la figura del caporale come aguzzino degli extracomunitari e anello di congiunzione con la malavita organizzata, nelle pratiche del neo-schiavismo la centralità del caporale è nei fatti ampiamente sfumata. Le rotonde dove all’alba passavano i furgoncini dei caporali per affittare le braccia a giornata (le cosiddette Kalifoo Ground dal nome che gli africani davano alle piazze degli schiavi nei paesi arabi) sono state sostituite da WhathApp, Telegram, X… dove si viene arruolati con messaggi per le campagne o per l’edilizia. Ed entrano poi in scena nuovi perversi meccanismi burocratici come ad esempio le assunzioni multiple. Visto che un cantiere senza operai può destare sospetti, allora metti in regola un solo lavoratore e poi con quella identità ci lavorano in quattro.
«Ma più in generale» ribadisce Gian Luca, «il problema resta culturale; spesso è lo stesso extracomunitario che ottenuto il permesso di soggiorno, preferisce magari lavorare al nero. Un po’ per non pagare tasse, un po’ perché anche a distanza di decenni si sente in transito, ancorato al paese d’origine nel quale potrebbe non tornare mai più». In mezzo a due mondi, senza appartenerne più a nessuno.
Come quel nigeriano che era arrivato al centro Caritas in preda al panico sventolando una carta che temeva fosse un foglio di via, e che invece era… una busta paga! Cosa che evidentemente in ventidue anni d’Italia non aveva ancora mai vista. Messa così allora, siamo di fronte a un circolo vizioso. Lo si riuscirà mai a spezzare? A noi viene da pensare che una possibile soluzione sia anche in una politica dei prezzi che interrompa lo status quo: è evidente infatti come la filiera dell’agroalimentare sia strozzata della grande distribuzione e che i prezzi all’ingrosso sono praticamente invariati da decenni, mentre tutto il resto aumenta. Dal carburante, ai concimi, all’energia… e questa assenza di potenziale profitto crea l’humus di quel mors tua vita mea per il quale l’imprenditore agricolo, non necessariamente guappo o camorrista, crede che l’unico sistema per fare profitto sia quello di utilizzare degli schiavi.
«Qua il migrante,» riprende Gian Luca una volta giunti in una connection-house dove facciamo sosta per una birra gelata che non farà altro che peggiorare la nostra traspirazione, «è come il porco, di lui non si butta via niente: dopo che è stato schiavizzato nei campi o in un cantiere, deve pur andare a dormire da qualche parte… e allora gli si affitta caro e salato un posto letto in una catapecchia che cade a pezzi, e poi c’è lo sfruttamento sessuale del quale nessuno parla ma invece è all’ordine del giorno.» E parte con storie di ordinario sopruso. Come quella della donna appena rimasta vedova che non riesce più a pagare l’affitto.
Allora il padrone bianco, in presenza del figlio piccolo e senza giri di parole, le propone di abbassarle la pigione in cambio di prestazioni sessuali periodiche fisse. Ma non solo le femmine nere sono oggetto del desiderio del padrone, da queste parti a essere molestati sono pure i giovani maschi. «Ci sono stati casi di stupri di gruppo a danni di ragazzini,» schiuma di rabbia Gian Luca e se fossimo nei panni di uno di quei violentatori non vorremmo finire con lui faccia a faccia in un vicolo buio.
«Ma la perversione di certi personaggi non ha limiti: anni fa un ragazzo venne rapito, imbottito di viagra, chalis, o quello che era, costretto a fare sesso sotto la minaccia di una pistola e filmato; a seguito di questa schifosa violenza ancora oggi il ragazzo non ci dorme la notte nel terrore che quel filmato rispunti fuori su qualche social.» Si parte dal presupposto che il nero non solo è indifeso, ma sia pure uno che resta zitto. Che non racconta la violenza subita.
Nel saltare i confini della povertà saltano tanti confini etici e alla fine si fanno cose che a noi umani stanziali sembrano terribili, ma che in certi transiti del dolore sono la normalità malata. Nell’antichità il padrone possedeva lo schiavo come fosse un animale, ma in un qualche modo sentiva nei suoi confronti anche una perversa responsabilità. Oggi invece si è proprietari del corpo dello schiavo giusto il tempo necessario allo svolgimento del servizio, finito il quale, lo schiavo non esiste più. Una intermittenza dell’essere che finisce per contagiare anche la Società Civile che percepisce queste problematiche a ’emergenza’ con la stessa ciclicità dell’abbandono estivo dei cani. Un’intermittenza dell’esistere che in parte contagia lo stesso migrante che sprofonda così in un transito emotivo permanente. Il nuovo schiavismo è in definitiva peggiore di qualunque altra schiavitù del passato, proprio perché cancella ogni elemento umano.
Quel «il mio padrone» (che per quanto orribile almeno era personale come il tatuaggio che indicava la proprietà di quel determinato schiavo, impressa, appunto, nella carne), era condanna e al tempo stesso identità perpetua, binario calmo attraverso il quale digerire il destino. Oggi invece si è codici a barre: venduti, affittati, scambiati, rottamati senza sapere nemmeno da chi. Persino la lingua degli schiavi può dissolversi: si perdono le rispettive lingue madri delle proprie identità e non si acquista il nostro idioma. Decenni di Italia e molti non sanno andare oltre al quanto? quando? dove? Si perde con gli anni il ricordo di molte delle proprie parole e non se ne trovano di nuove.
Il tutto diventa rumore. Ordine del capo. Pensiero bidimensionale di sopravvivenza. E la nuova schiavitù, a differenza delle passate, vede nell’orrore sensoriale il suo comun denominatore. Le nostre baraccopoli non hanno infatti i suoni e i colori di quelle latinoamericane: quel senso della nostalgia per il villaggio perduto nella memoria ancestrale. I nostri lager hanno piuttosto l’acre odore del sangue. Una transitorietà che trasla la capanna del nuovo zio Tom, in una cella di transito, di passaggio. Mamadou conosce benissimo queste condizioni ma per sua fortuna non sulla sua pelle. E ci racconta come, anche senza incappare in cotanta criminale aberrazione, anche il semplice ambientarsi in Italia possa trasformarsi in un macigno di solitudine e d’incapacità a sviluppare anche semplici rapporti sociali o sentimentali. Per non parlare del degrado che subiscono i legami con le famiglie in Africa. Ma lui è uno che è riuscito ad ambientarsi, con compagna italiana e figli italiani.
Uscito dall’inferno del tabacco e diventato mediatore culturale, oggi aiuta quelli che hanno vissuto il suo stesso calvario. Quasi fosse un lui il bianco… mentre Gian Luca diventa sempre più nero nell’identità e persino nel portamento: con moglie e amici africani: «mi sono sposato in Ghana con rito locale e al matrimonio è venuta mia madre apposta da Saronno. Lei, cattolica un po’ conservatrice, si guardava intorno nello sconforto più totale, mentre mia sorella, più pragmatica, cercava di consolarla: dai mamma, guarda il bicchiere mezzo pieno, almeno si sposa!»
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