Se quella di Stefano Cucchi nella notte in cui venne arrestato per droga e picchiato brutalmente, il 15 ottobre 2009, fu «una via crucis notturna» tra le stazioni dei Carabinieri dove tutti poterono accorgersi del suo cattivo stato di salute – come ha sottolineato ieri il Procuratore generale Tomaso Epidendio che alla Corte di Cassazione ha chiesto di confermare le condanne per i quattro militari coinvolti a vario titolo nel pestaggio del geometra romano -, la via crucis della famiglia Cucchi si è parzialmente conclusa ieri nelle aule del Palazzaccio «dopo 10 gradi di giudizio e più di 150 udienze». E a più di 12 anni dalla morte del giovane giunta dopo una settimana di supplizio nell’ospedale Pertini di Roma. La loro «fiducia nella verità», come avevano ribadito Ilaria Cucchi e il suo avvocato Fabio Anselmo, «stremati da una vicenda estenuante», è stata fin qui ricompensata.

Dopo cinque ore di camera di consiglio, infatti, la V Sezione Penale della Corte di Cassazione ha condannato a 12 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, per i quali si apre ora il carcere. Per il maresciallo Roberto Mandolini, allora comandante della stazione Appia dove venne portato Cucchi dopo il pestaggio, e per Francesco Tedesco, il carabiniere che in corso di dibattimento è diventato il testimone chiave contro gli altri due co-imputati, la Corte ha disposto invece un Appello bis con il capo di imputazione di falso, anche se arriverà prima – a maggio 2022 – la prescrizione del reato.

«FINALMENTE è arrivata giustizia, dopo tanti anni, almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte», ha esultato la mamma, Rita Calore. Infatti per la famiglia Cucchi non è ancora finita: giovedì 7 aprile è attesa la sentenza del primo grado del processo ter, sui depistaggi.

L’udienza ieri, nell’aula del Palazzaccio, si è svolta a porte chiuse per i giornalisti per via della richiesta di rinvio causa Covid avanzata dai difensori degli imputati e respinta dalla Corte. Il Pg aveva chiesto solo per Francesco Tedesco di ripetere il processo d’Appello «limitatamente al trattamento sanzionatorio», per rivedere la condanna a due anni e mezzo di carcere per falso emessa il 7 maggio 2021. Quel giorno la corte d’Assise d’Appello aveva aumentato la pena da 12 a 13 anni per Di Bernardo e D’Alessandro, avendo escluso le attenuanti generiche che erano state riconosciute dalla I Corte d’Assise di Roma il 14 novembre 2019. E aveva portato da tre anni e otto mesi a quattro anni la pena carceraria per falso comminata a Mandolini. Confermata invece la condanna in primo grado di Tedesco.

A PARTE la posizione del carabiniere pentito e del maresciallo Mandolini, la Corte ha dato ragione al Pg Epidendio secondo il quale le leggi dello Stato sono state ben applicate nelle precedenti sentenze perché i due carabinieri condannati sono «soggetti professionalmente preparati che si trovano ad affrontare una reazione prevedibile, e nemmeno delle più eclatanti, durante il fermo di Stefano Cucchi che rifiuta di sottoporsi al fotosegnalamento». E il pestaggio avvenuto nella caserma Casilina «è stato una punizione corporale di straordinaria gravità per il suo comportamento strafottente, caratterizzata da una evidente mancanza di proporzione con l’atteggiamento non collaborativo del Cucchi. Tutto qui – ha concluso il magistrato – è drammaticamente grave ma concettualmente semplice: senza i calci, gli schiaffi, le spinte, ci sarebbe stata la frattura della vertebra? La risposta è palesemente negativa». Motivo per il quale, aveva spiegato il Pg, per loro andava  confermata l’aggravante per futili motivi. La Corte non ha accettato la richiesta.

QUELLO CHE si è concluso ieri è il secondo processo, scaturito dall’inchiesta bis affidata dall’allora procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone al pm Giovanni Musarò dopo che il muro dell’omertà dell’Arma venne rotto dalle dichiarazioni dei carabinieri Riccardo Casamassima e Maria Rosati. Nel primo processo erano imputati a vario titolo per omicidio colposo e falso 12 persone, tra medici e infermieri dell’ospedale Pertini e agenti di polizia penitenziaria. Per due volte la Cassazione annullò l’Appello che aveva ribaltato la condanna dei soli medici inflitta in primo grado. Per farla breve, l’ultima sentenza del 14 novembre 2019 confermò l’assoluzione di un paio di medici e il non luogo a procedere per gli altri quattro a causa della prescrizione del reato.

Con la sentenza di ieri si ripresenta la questione della scadenza dei termini, anche se gli avvocati Naso e Frattarelli, difensori di Mandolini, starebbero valutando la rinuncia alla prescrizione, non prima però di aver letto le motivazioni della sentenza. Intanto l’Arma ha annunciato ieri sera che i procedimenti disciplinari per i condannati saranno «conclusi con il massimo rigore».