Cuba, immagini sfocate del cinema
A Santiago di Cuba, in una delle tante ville del quartiere di Vista Alegre, è ubicato il Museo de la Imagen Bernabé Muñiz Guibernau. Qui abbiamo intervistato il direttore, il dott. Demian Rabilero, operatore culturale e poeta.
Dott. Rabilero, ci vuole parlare della storia e della funzione del Museo de la Imagen nella cultura cubana?
Il museo nasce dalla volontà e dalla passione di Muñiz Guibernau, un tecnico di grande prestigio. Molti oggetti li acquistò personalmente sacrificando il suo patrimonio, altri li trovò in dei magazzini, anche grazie alla collaborazione di Santiago Álvarez e di uno dei padri della storiografia del cinema cubano, Arturo Agramonte. Nel 1989 l’allora delegato del Ministero dell’Interno Roberto Valdés lo appoggiò nella ricerca della sede attuale, dove si inaugurò nel 1992 con una collezione importante che si continua a incrementare, con la visione di un museo aperto, inclusivo, una casa per gli artisti.
Come ha vissuto Cuba la transizione dall’analogico al digitale nel campo della cinematografia?
Va inquadrata nel contesto del periodo speciale, che assestò un duro colpo all’ICAIC, l’Istituto cubano dell’arte e industria cinematografica, che monopolizzava l’industria cinematografica sin dal trionfo della rivoluzione. Il passaggio ci ha colto di sorpresa, il contesto economico ha condizionato l’acquisto di attrezzature digitali. È mancato un progetto logico e coerente su come affrontare questa transizione, che ha fatto sì che nascesse un nuovo cinema indipendente, caratterizzato da una diversità tematica. Abbiamo una fase che si può definire la pornomiseria: questo cinema, che ovviamente non passava in televisione, documentava la povertà, i problemi sociali, la degradazione, la crisi economica, marcando molto gli aspetti sessuali. Sembra quasi che il cinema volesse occupare lo spazio del giornalismo, erano temi che la stampa non trattava, o trattava in altra forma. Quando si creò la FAMCA (Facultad Arte de los Medios de Comunicación Audiovisual), mentre i costi dell’accesso alla tecnologia si abbassavano, crebbe la vocazione di fare film, grazie anche all’apporto di finanziamenti stranieri come quelli delle ambasciate norvegese, olandese, spagnola. Tutto ciò fece sì che il cinema indipendente cubano raggiungesse una fase di professionalità, e iniziò a prodursi un cambio stilistico. Di fatto, oggi il cinema cubano ha una cifra poetica, non mira al botteghino, è di grande qualità ma è anche minoritario. Mostra le problematiche esistenziali di una popolazione con grande poesia. Va detto che il cinema a Cuba ha sempre avuto una vocazione critica. Anche durante il monopolio dell’ICAIC lo sguardo degli autori era critico e affrontava la realtà con uno sguardo non compiacente. Molto di questo cinema passava nei cineclub negli anni ‘90, insieme ai documentari. Con il cambio generazionale l’ICAIC smise di avere il monopolio, pur continuando a disporre rispetto al cinema indipendente di una maggiore quantità di risorse. Arrivarono i cineasti indipendenti e anche produttori indipendenti, che entrarono in contraddizione con il mondo politico, e si generarono frizioni. Il governo decise così di varare una tardiva legge sul cinema. Purtroppo si affermò una politica di non distribuzione dei film. Negli anni ’70 e ’80 si facevano spot pubblicitari in televisione, si stampavano manifesti e locandine che accompagnavano il film, c’era una struttura logica e razionale. Tutto ciò terminò con il periodo speciale, e non è più tornato. I cineasti indipendenti fuori dal circuito distributivo, come Eduardo del Llano, Jorge Molina, Miguel Coyula, sono registi noti ai quali è stato negato il diritto del confronto con il pubblico. L’accesso alla cultura è penalizzato dai prezzi e da problemi logistici. La quantità di tempo che occorre impiegare per la sopravvivenza e la vita quotidiana, inclusi i bisogni di base relativi al cibo, i problemi causati dalla diminuzione dei trasporti, rendono difficile la fruizione dei film in sala. Si vendono sempre meno biglietti, il digitale è distribuito malissimo. Si è negato il diritto a una generazione di cineasti a confrontare i propri film con il pubblico. Il cineasta ha bisogno di un costante dialogo con il pubblico delle sale, ma il pubblico purtroppo spesso vede il cinema su dei supporti individuali. Cuba attraversa il momento storico e sociale più complesso dal 1898, persino più complesso che nel 1959. Il futuro si presenta in una situazione caotica, di disperazione e disincanto, e il cinema deve riflettere tutto ciò. L’estetica che il cinema indipendente cubano sta generando, in un ambiente tanto ostile, non accetta compromessi, non ha peli sulla lingua, reca un discorso ipercritico contro il governo. Molti registi non caratterizzano il proprio cinema con un discorso politico, ma poetico.
Qual è stata la storia dell’audiovisivo cubano prima e dopo la rivoluzione? E come si è sviluppata negli anni seguenti, fino a oggi?
A Cuba arrivò il regista francese Gabriel Veyre, che già nel 1897 realizzò il primo film, Simulacro de incendio. Purtroppo la maggior parte di questa produzione è andata perduta. Fu un’ampia produzione di tipo patriottico, senza grandi risultati artistici e industriali, fino al 1959. Gli storici del cinema Arturo Agramonte e Luciano Castillo scrissero di Ramón Peón, del quale fortunatamente si conserva una pellicola muta, La Vergine della Carità, uno dei grandi classici. Ci fu anche un cinema di carattere musicale dal valore etnografico (La mulata rumbera). Poi dei film apprezzabili, come Siete muertes a Plazo Fijo, e un cinema sociale, presentato dal Mégano, un nucleo di autori come Tomás Gutiérrez Alea, Alfredo Guevara, Julio García Espinosa. Espinosa e Gutiérrez Alea, fondatori dell’ICAIC, si recarono in Italia a studiare presso il Centro sperimentale di cinematografia, e furono gli unici all’epoca ad avere una formazione specifica. Di quel cinema molte produzioni non furono conservate e andarono perdute, perché l’ICAIC, che nacque nel 1959 con la prima legge emanata dal governo rivoluzionario che nominò Alfredo Guevara, amico personale di Fidel dai tempi dell’università, come suo direttore, volle ignorare totalmente il passato. Nacque così un cinema balbuziente, fatto da gente che aveva un certo livello culturale, letterario e di formazione artistica, ma senza alcuna esperienza filmica. L’ICAIC ebbe il monopolio assoluto del cinema: tutto era fatto sotto il suo controllo assoluto. La decade dei ‘60 è di transizione, si sviluppa il documentario, il cinema cubano inizia a vincere premi in festival molto importanti, seguendo il processo della rivoluzione, dell’utopia, della speranza, con una produzione fresca, spontanea, raccontando fatti significativi come la campagna di alfabetizzazione. E c’è un boom del cinema nazionale, che produce classici come Memorie del sottosviluppo, Lucía, La primera carga al machete. Sempre nei ‘60 appare la figura geniale di Santiago Álvarez, che fonda il principio teorico del documentario come arma di lotta per combattere l’imperialismo. Anche il Notiziario ICAIC ebbe un ruolo importante in questo processo di formazione, poiché iniziò a diventare come una scuola di cinema molto prima che nascesse, all’interno dell’ISA, l’Università delle arti, nel 1988, la FAMCA (Facultad de Arte de los Medios de Comunicación Audiovisual). Il Notiziario formava tecnici e futuri registi di fiction, sotto l’egida di Álvarez, che ha lasciato una grande eredità alla storia del cinema universale. Vi furono momenti di censura, come quelli che interessarono dei documentari prodotti dal settimanale culturale del periodico Revolución «Lunes de Revolución», con intellettuali come Guillermo Cabrera Infante e Carlos Franqui. Una pellicola come P.M. (Pasado Meridiano) fu censurata perché mostrava la notte habanera nella sua realtà. Poi arrivarono momenti nefasti per la cultura cubana, con il Primo congresso di educazione e cultura, e la espulsione di molti artisti, in un clima ostile contro la libertà e la creazione artistica. Un periodo con il quale la nazione non si è ancora riconciliata. Negli anni ‘70 all’ICAIC avvenne un cambio, e tutti i cineasti iniziano a interessarsi alla storia, a filmare sul passato repubblicano, sul secolo XIX, un modo per evitare la censura. C’è un film di Tomás Gutiérrez Alea che fu censurato, Una pelea cubana contra los demonios, bello, violento, interrogativo. Negli anni ‘80 alla presidenza dell’ICAIC fu posto Julio García Espinosa. Il paese entrò simbolicamente in tre processi: l’esodo di Mariel, con tante persone che abbandonarono l’isola, una sorta di purga di gente scontenta, un modo per abbassare la tensione; l’intervento in Angola, che terminò con la vittoria delle truppe cubane contro gli invasori sudafricani, molto importante per l’immaginario collettivo; infine la gloriosa vicenda di Arnaldo Tamayo Méndez e il Programma Intercosmos: un contadino di Guantanamo che divenne il primo cosmonauta nero della storia dell’umanità. E si produsse la decade del benessere economico, grazie ai sussidi russi. La produzione di fiction e documentari aumentò quantitativamente e si diversificò la tematica dei film. Nel cinema di fiction arrivò Fernando Pérez, con la sua opera prima del 1987 Clandestinos, che va a contemplare in altro modo l’epica rivoluzionaria della lotta contro Batista. Poi c’è una delle più grandi opere di animazione, capolavoro umoristico del tutto politicamente scorretto, Vampiri all’Avana, pellicola che oggi sarebbe accusata di omofobia, machismo, razzismo. Il cinema cubano comincia a interessarsi ai destini individuali più che della collettività, come in Papeles secundarios di Orlando Rojas, e in Retrato de Teresa di Pastor Vega, una delle pellicole più polemiche sul tema del machismo. Nel 1991 si produsse un film che fu un terremoto, Alicia en el pueblo de Maravillas, una versione in tono di commedia di tutta l’inefficienza cubana, un film che uscì solo per tre giorni con la vigilanza della polizia, suscitando una polemica feroce. Furono pubblicati articoli spiacevoli sul Granma, l’organo ufficiale del partito, fu una vergogna nella storia del giornalismo cubano. Una censura gratuita, come è stato nel novantanove per cento dei casi di censura avvenuti a Cuba dalla rivoluzione. C’era un clima politico isterico, ma anche la soddisfazione di dirimere problemi personali addebitandoli ad altri. Non importava tanto censurare o meno il film, quanto mostrare il proprio potere censorio.
Nella decade del ‘90 l’ICAIC ridusse moltissimo la produzione, anche nel campo dei documentari. Iniziò con un film amaro di Fernando Pérez, Madagascar, un mediometraggio sui generis, che indagava profondamente e in modo disincantato sull’individuo e la società. L’ICAIC non ebbe più la possibilità di filmare, interrompendo la documentazione etnografica e sociologica che era stato il Notiziario ICAIC, dichiarato memoria del mondo dall’UNESCO. I notiziari peraltro erano amatissimi, spesso la gente entrava al cinema anche solo per vederli e poi usciva senza vedere il film. In questo momento transitorio degli anni ‘90 il cinema cubano iniziò a essere abbastanza critico nei confronti della realtà, e l’ICAIC, con l’arrivo del cinema indipendente, perse il monopolio.
Ci vorrebbe suggerire una breve selezione di opere del cinema cubano?
Una lista senza distinzione di generi, che include animazione, documentari, fiction, fino al 2000. Memorie del sottosviluppo di Gutiérrez Alea, pellicola del 1968 che è divenuta un classico. La virgen de la caridad di Ramón Peón, sopravvissuto alla distruzione, esempio del cinema prerivoluzionario. Vampiri all’Avana di Juan Padrón, capolavoro dell’animazione dall’humor corrosivo, ambientato nel periodo della dittatura di Machado. Poi Santiago Álvarez, in particolare LBJ, un esempio di come raccontare una figura politica da un punto di vista marcatamente ideologico, ma in modo tanto profondamente artistico da raccontare la società americana degli anni ’60, grande opera cinematografica che raccomando a tutti gli studenti di cinema. Dell’altro grande documentarista della medesima epoca, Nicolás Guillén Landrián, raccomanderei Coffea Arábiga, che pur essendo didattico ha uno sguardo bello, umano, critico verso il processo cubano. Poi Fernando Perez, con Suite Habana, un misto fra documentario e fiction, o docu-drama, un ritratto vivido, lucido dell’amore a Cuba, soprattutto a L’Avana, nel periodo speciale attraverso una serie di personaggi, con una grande colonna sonora di Edesio Alejandro. E un altro documentario: Nosotros, la música, di Rogelio Paris, del 1964. De cierta manera, il primo lungometraggio di fiction realizzato da una donna, la nera Sara Gómez, che aveva una visione fresca, lucida e vitale della marginalità cubana. E, di Gutiérrez Alea, Ultima cena, un capolavoro straordinario con la fotografia di Mario García Joya. E ancora un film che è stato tanto criticato ma molto utile per comprendere la Cuba degli anni ‘80, per comprendere meglio le aspettative, i sogni, la sociologia dell’epoca, che racconta la serie di equivoci che provoca una permuta di casa a Cuba, Se permuta, del 1983, con la grande attrice del cinema prerivoluzionario Rosita Fornés, una stella del cinema latinoamericano. Aggiungerei La primera carga al machete, di Manuel Octavio Gómez, con una fotografia molto contrastata dal negativo quasi bruciato, che racconta la lotta cubana per l’indipendenza mettendo un giornalista nel campo di battaglia, distaccandosi da tutta la produzione patriottica. Concludo, per ciò che simbolizzò, per quello che generò in commenti, in polemica, in censura – quanti anni abbiamo aspettato per vederlo in televisione! – Fragola e cioccolato, di Gutiérrez Alea e Taibo, molto importante per ciò che narra, la problematica omosessuale nell’epoca rivoluzionaria, indiscutibilmente un simbolo per il cinema cubano che si vendette moltissimo, probabilmente la pellicola più diffusa all’estero e più visionata.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento