Nei giorni scorsi sono circolate le immagini di un tornante collinare a quindici chilometri da Cesena che all’improvviso inghiottiva se stesso, facendo sparire i frantumi di manto stradale e gli alberi sradicati in una pacifica gobba di terreno. La velocità della scena poteva causare nell’osservatore una stranissima commistione di finimondo e innocenza, perché alla truculenta apertura della voragine bastavano davvero pochi secondi per ricomporsi in un paesaggio sonnolento e direi quasi appagato. Il tutto, s’intende, accadeva sullo schermo dello stesso smartphone che mi ha già permesso di sopravvivere a un certo numero di apocalissi termonucleari, invasioni aliene, attentati terroristici e guerre varie. Lo si potrebbe considerare l’ennesimo esempio delle tempeste osservate quand on est au rivage, dunque, lo spettacolo sublime di un cataclisma che sta infuriando a una distanza tale da assicurarci l’incolumità, se non fosse che in questo caso il dissesto idrogeologico non se ne stava da qualche parte laggiù in fondo, ma sotto i piedi dell’osservatore.

In questa prospettiva, le immagini della collina di Cesena ci potrebbero aiutare a procedere con ordine nel tentativo di comprendere cosa sta accadendo, evidenziando come la formulazione del nostro comune e più urgente problema sia talmente elementare da non riuscire ad aggiudicarsi la dovuta considerazione. Perché il punto è ancora quello di sopravvivere alle piogge, anche all’epoca del telescopio James Webb o delle automobili teleguidate, un programma che svariate popolazioni disperse ai confini dell’impero sono abituate ad affrontare con molto più realismo di quanto non ne esprimano le agende e i summit globali. Le nostre stesse zone montane, ormai spopolate, custodiscono senz’altro una conoscenza in materia che la metropoli ha integralmente delegato ai tecnici o al sistema dei consumi, stilizzandone la trasmissione nelle forme deperibili del pittoresco o dell’intervista all’esperto.

Non è un caso se ad assumere un’importanza decisiva nella trama dei romanzi o dei film post-apocalittici risulta spesso la figura del tuttofare, il tipo un po’ spostato che fino a un momento prima trascorreva una quantità sospetta di tempo a riparare quei suoi strani aggeggi in garage.

La conoscenza che salva in determinate circostanze si direbbe soprattutto quella di chi ci ha messo e sa mettere le mani, qualcosa di molto antico che si lascia nuovamente prospettare nel futuro dell’automazione.

Esistono ritardi ed emergenze di vario tipo che in questi giorni si sono dati un macabro appuntamento in Romagna e che ci dovrebbero indurre a ripensare i rapporti tra passato e futuro, che sono anche rapporti tra la mano e il cervello, anche nella loro articolazione geografica e sociale. Come minimo si tratterebbe di stabilire che le culture politiche più «al passo coi tempi» e le loro centrali, tanto sollecite nel tacciare di obsolescenza qualunque forma di conflitto, non si stanno rivelando sufficientemente contemporanee da fronteggiare la minaccia ultramoderna e preistorica della pioggia. Ma l’emergenza sulla quale mi permetto di insistere è di ordine epistemologico, perché siamo sempre più sprovvisti dei saperi integrati nell’esperienza dei territori e dei loro problemi.

Il territorio viene eventualmente considerato come portatore di interessi o di bisogni, ma la sua funzione cognitiva e di istruzione delle politiche non sopravvive quasi mai all’accusa di arretratezza e di particolarismo. Quando si organizza per far valere le proprie ragioni sta sempre attentando all’autorità del fare e dell’innovare, quando le sue ragioni risultano evidenti si schiantano sui vincoli di bilancio. Nei mesi del lockdown pareva quasi che la tendenza si fosse arrestata, che fossero in tanti a riconoscere nell’esautorazione dei quartieri e delle aree interne una delle principali cause del collasso sanitario, ma il periferico sembra destinato a rimanere periferico.

Per la destra è un tradizionale motivo di successo, perché alla periferia offre da sempre un ricco campionario di ulteriori margini e risarcimenti simbolici, mentre la cosiddetta sinistra continua a sognare il sogno governista secondo il quale non si tratta mai di prendere posizione, anche tra forme e soggetti di conoscenza in attrito, ma di chiamare sviluppo il paludamento della loro relazione gerarchica e costitutivamente conflittuale.