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Costi della politica, uno sconcio banalizzato a sinistra

La questione dei cosiddetti costi della politica è fraintesa e banalizzata a sinistra. Liquidata come argomento qualunquistico. Mentre è oggi in Italia una delle facce della crisi democratica. Il qualunquismo […]

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 30 ottobre 2016

La questione dei cosiddetti costi della politica è fraintesa e banalizzata a sinistra. Liquidata come argomento qualunquistico. Mentre è oggi in Italia una delle facce della crisi democratica.

Il qualunquismo c’entra indubbiamente. Ieri era la denuncia della «casta» nel nome di un improbabile galantomismo, ora è la volta della demagogia a 5 stelle. Per cui ci si compiace del flop della piazza grillina dopo che l’aula di Montecitorio ha liquidato la proposta di tagliare gli stipendi dei parlamentari. Ma porla in questi termini significa guardare il famoso dito invece della luna. Ci sono almeno due aspetti cruciali (tra loro connessi) che andrebbero considerati.

In primo luogo questa questione, per quanto marginale o pretestuosa, è divenuta dirompente proprio perché, col disinteressarsene, la si è lasciata in pasto ai demagoghi. È vero che in percentuale sul Pil la politica costa un’inezia (incomparabilmente meno della corruzione, dell’elusione o dell’evasione fiscale, per esempio). Ma desumerne che ci si può disinteressare del discorso è dissennato. Il discorso è una realtà per se stesso. E fatto da chi ha interesse a seminare sentimenti antipolitici produce effetti rovinosi.

Si tratti di influenti opinionisti ai quali interessa gettare fango addosso al pubblico (come se anche nel privato non abbondassero frodi ai danni dello Stato) oppure dei nuovi arruffapopoli nati dal dileguarsi di ogni seria opposizione, il risultato non cambia.

Gli italiani vengono scrupolosamente addestrati al disprezzo delle istituzioni, a considerare la politica roba da cialtroni e delinquenti. O, nella migliore delle ipotesi, appunto, uno spreco.

È un risultato disastroso, frutto di superficialità o – delle due l’una – del desiderio oligarchico che siano in tanti a pensarla in questo modo. Così da poter fare una bella riforma nel segno della «semplificazione» e chiudere finalmente la partita.

Ora ce ne accorgiamo. Se il Sì dovesse sciaguratamente prevalere il 4 dicembre, sarebbe anche per questa sottocultura autoritaria diffusa nel paese, parente stretta dell’invocazione scalfariana dell’Uomo solo al comando.

Resta, si dirà, che una massa di incapaci e di corrotti sfila sotto i nostri occhi quando si apre il catalogo delle istituzioni, a cominciare proprio dalle assemblee elettive. Nessun dubbio. Il punto è che l’obiezione andrebbe rovesciata di sana pianta. Qui veniamo all’altra faccia del problema. O, se si preferisce, dell’attacco alla democrazia repubblicana.
Se la politica è sommersa di soldi e privilegi, non è per una svista o per errore, ma per la stessa ragione per cui le istituzioni sono affollate – come già disse qualcuno – di nani e ballerine. Si è permesso a parlamentari e consiglieri di innalzare a dismisura i propri benefici in cambio della loro rinuncia a ogni possibilità di contrastare il dettato dei governi. Cioè in cambio della mortificazione della rappresentanza, scolpita nelle leggi elettorali e nei regolamenti delle assemblee elettive e praticata dai partiti nella definizione delle liste elettorali.

Questo mercimonio è stato, a ben guardare, la prima sapiente riforma istituzionale della nascente Seconda repubblica, il battistrada di tutte quelle susseguitesi negli ultimi 25 anni. Ed è per questo che la sinistra dovrebbe prestare la massima attenzione alla faccenda. Dovrebbe, se potesse: se proprio qui non cascasse l’asino.

Se c’è un indice della fondatezza di queste considerazioni, è la pervasività del trasformismo, per cui si è pronti letteralmente a tutto pur di restare in un giro tanto vantaggioso. Da questo sconcio la sinistra, non solo dentro il Pd, è, come sappiamo, tutt’altro che immune.

E così il cerchio si chiude, in una irresponsabile rimozione collettiva. O nella comoda via di fuga della denuncia della volgarità dei demagoghi.

È innegabile: questo discorso è di per sé alquanto volgare, certo assai meno avvincente e nobile dei massimi principi che innervano la Ragion politica. Ma se a farlo non è chi dovrebbe avere a cuore la democrazia e la Repubblica e la Costituzione antifascista. Se lo si abbandona a chi lavora contro, magari perché si ha qualche imbarazzo ad affondare il colpo. Allora non ci si lamenti se poi la rabbia della gente imbocca strade sbagliate. Se in tanti corrono dietro ai nuovi pifferai. Se si affidano proprio al loro principe, oggi più che mai smanioso di potere.

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