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Cortei Usa, salta la relazione speciale con Israele

Cortei Usa, salta la relazione speciale con IsraeleDimostranti pro-Palestina davanti al consolato israeliano di Atlanta, Usa – foto Ap/Jeff Amy

Usa/Israele Intanto il presidente Usa in soccorso di Netanyahu che detesta, mentre gli voltano le spalle anche gli arabi moderati. Ma ammonisce: non seguite la rabbia «come noi dopo l’11 settembre»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 ottobre 2023

Joe Biden, l’attuale presidente degli Stati uniti, era tra i 77 senatori che nell’ottobre 2002 autorizzarono il presidente George W. Bush a ricorrere alla forza militare contro Saddam Hussein, cioè a dare il via alla seconda guerra del Golfo.

Il conflitto che avrebbe portato a una devastazione senza fine nella regione, con riverberi di morte che tuttora arrivano fin alle rive del Mediterraneo.
Allora Biden era presidente della commissione esteri del senato, era il più alto in grado nella politica internazionale americana dopo il presidente e il segretario di stato. Hillary si giocò la presidenza, contro Obama, anche per essere stata tra i 77 senatori a sostegno di Bush. Biden non ha pagato un analogo prezzo politico.

IN TERMINI D’IMMAGINE, sì. Tanto che ieri in Israele lo stesso Biden ha citato quella guerra per ammonire gli israeliani a non fare altrettanto, a non ripetere quel che accadde dopo l’11 settembre: «Eravamo arrabbiati, cercavamo giustizia e avemmo giustizia, ma facemmo anche errori» . A quegli errori e orrori andrebbero aggiunti quelli dell’Afghanistan, un’impresa talmente insensata e crudele da avere reso pazzesca anche la sua conclusione, gestita molto malamente dall’amministrazione Biden.

Quel voto del 2002 aiuta, retrospettivamente, anche a capire la forza e il potere che solo un ventennio fa aveva il presidente degli Stati Uniti quando poteva piegare a una sua scelta evidentemente scellerata, anche perché palesememte basata su assunti falsi, il senato americano. Era ancora l’America “bipartisan”, della condivisione delle scelte strategiche in materia di “sicurezza nazionale”, cioè militari, e in materia di politica internazionale. Una potenza imperiale non poteva concedersi divisioni o conflitti tra poteri, tanto meno sbiadire la forza decisionale del commander-in-chief.

JOE BIDEN, E CHI verrà dopo di lui, non dispone più di quel potere.
Una superpotenza oggi è guidata da un democratico che investe politicamente ed economicamente nella Nato e nell’interventismo, ma domani potrebbe essere guidata da un repubblicano isolazionista, Donald Trump, il quale, peraltro, come predecessore di Biden, detestava la Nato e gli alleati europei; una superpotenza dove la House è paralizzata da un partito alle prese con sue guerre intestine per l’elezione dello speaker; una superpotenza dove si discute sulle capacità fisiche e mentali del presidente di reggere il peso dell’incarico; una superpotenza così non è più tale. Non conferisce al suo commander-in-chief quel potere necessario per intervenire come mediatore in una crisi drammatica come quella in corso in Medio Oriente con la necessaria forza e credibilità.

IN PASSATO, un presidente statunitense poteva incontrare un’irriducibile e diffusa ostilità nell’opinione pubblica domestica alle sue scelte interventiste. Ma sul terreno della relazione speciale con Israele c’era un consenso ampio e generale, che gli consentiva di stare al fianco della leadership israeliana e di sostenerla generosamente con soldi e armi. Nei giorni scorsi si è visto qualcosa di veramente inedito, che rompe quel clima, forse definitivamente.

Affollatissime marce a sostegno dei palestinesi in molte città americane, dappertutto, anche in Texas, con gruppi di studenti in campus come Harvard e Stanford in aperta sfida ai dirigenti e ai donor miliardari dei loro atenei nella condanna della politica israeliana a Gaza e nella solidarietà con i palestinesi.

È UN CAMBIAMENTO politico e culturale che riflette la nuova demografia americana, nella quale arabi e islamici contano molto più che in passato, ma più in generale rispecchia un atteggiamento di rivolta, acceso dalla mobilitazione a sostegno dei neri – Black Lives Matter – e che ora s’estende alla solidarietà con i palestinesi.

Biden è il primo a essere consapevole di come si sia ridotto il suo potere presidenziale e dei suoi limiti. Politico di vecchia scuola, molto prudente, è capace però di mosse audaci come quella di soccorrere, quasi spettacolarmente, un alleato che detesta, come Benjamin «Bibi» Netanyahu. Riceve apprezzamenti come fosse un eroe per essere andato personalmente in una situazione di guerra, decisione mai presa da nessuno dei suoi 45 predecessori.

MA È UN’IMMAGINE illusoria, se quel che porta a casa è un incontro con un leader screditato come Bibi Netanyahu ed è snobbato persino da leader come Abu Mazen e il re di Giordania, totalmente dipendenti dall’America. Ma la scommessa di Biden non si gioca sul successo d’immagine, che peraltro ha il suo evidente rovescio.

La posta in gioco di questa visita blitz è quella di un commissariamento della leadership israeliana attuale e dei suoi processi decisionali. Glielo chiede il fronte interno anti-Bibi e la parte progressista della comunità ebraica americana e non solo. Questo passo lo priva della possibilità di fare il mediatore? Un grande rischio certo, ma l’unico da correre per fermare Netanyahu e la folle corsa verso la guerra totale.

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