La notizia, all’inizio del 2022, dell’uscita di ben due nuovi romanzi di Cormac McCarthy ha inevitabilmente generato grandi aspettative tra i lettori che da ormai sedici anni – tanti ne sono passati dalla pubblicazione di La strada – attendevano l’arrivo del favoleggiato libro al quale lo scrittore americano aveva cominciato a lavorare negli anni Ottanta. Considerato da Harold Bloom il vero erede di Shakespeare e di Melville, il quasi nonagenario decano della letteratura statunitense ha ampiamente ripagato le attese, regalandoci un dittico che è in realtà una summa della sua opera, nonché una profonda meditazione sulla natura della realtà, della psiche, dell’arte e, in definitiva, del senso della nostra esistenza terrena e della sua inevitabile conclusione. Il passeggero (traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi pp. 388, € 21,00) e Stella Maris (programmato per settembre) sono due romanzi «fratelli», separati alla nascita e leggibili singolarmente, che offrono due prospettive diverse sulla stessa storia.

Chi si aspettava un thriller sulla falsariga di Non è un paese per vecchi o la violenza di Meridiano di sangue rimarrà deluso: nel Passeggero l’orrore è soprattutto metafisico, mentre l’astrattezza linguistica ricalca l’indecifrabilità della meccanica quantistica. È  un’opera estremamente ambiziosa, che non teme di porsi grandi domande esistenziali per mezzo di una prosa densa e tuttavia rarefatta, quasi intossicante, che si avvale di periodi polisindetici –attraverso una sequela di conversazioni: quasi dialoghi filosofici, che fanno emergere una volta di più la centralità dell’interrogativo epistemologico nella poetica di McCarthy. Il suo interesse per la scienza e la filosofia sono noti fin dagli anni Ottanta, quando cominciò a collaborare con il Santa Fe Institute (New Mexico), istituzione dedicata alla ricerca scientifica all’avanguardia, soprattutto in un’ottica interdisciplinare. Proprio tra le mura di quel prestigioso istituto, McCarthy ha scritto e portato a termine i due suoi ultimi libri.

Al centro del romanzo,  due fratelli, Bobby e Alicia Western, figli di un fisico nucleare che ha lavorato al Progetto Manhattan e di una donna di origini ebraiche – generati letteralmente dalle catastrofi del ventesimo secolo, la bomba e l’Olocausto. Entrambi padroneggiano i segreti della matematica, ma nonostante sia affetta da una forma di schizofrenia paranoica o di autismo che nessun test psichiatrico riesce a classificare, la geniale Alicia è assai più brillante del fratello maggiore. Durante l’adolescenza lavora con importanti matematici e fisici come Nash, Feynman e Grothendieck, ma dopo la tesi di dottorato (che nell’ultimo capitolo arriva a confutare la natura stessa della fisica) abbandona gli studi, persuasa che nemmeno la meccanica quantistica sia in grado di spiegare l’essenza della realtà.

All’inizio del romanzo, ambientato negli anni Ottanta, Bobby è impegnato a esplorare il relitto di un aereo inabissatosi per cause sconosciute; la scatola nera non si trova e, cosa ancora più strana, i passeggeri deceduti sono seduti ai loro posti – tutti tranne uno, di cui non c’è traccia. Nella loro indecifrabilità, questi elementi  sembrano indirizzare la trama verso il mystery, ma scopriremo ben presto che trattasi di falsi indizi – mise en abyme del nucleo del testo, vuoto come il sedile del misterioso passeggero.

Anche la vita di Bobby è condizionata da una dolorosa assenza: il romanzo si apre infatti con la scoperta del corpo senza vita di Alicia, impiccatasi il giorno di Natale. Da allora Bobby convive con un profondo senso di colpa, convinto com’è di aver causato indirettamente la morte della sorella, da sempre innamorata di lui. Nel poco tempo libero frequenta bar e locali malfamati di New Orleans, dove incontra una variopinta cricca di squinternati, reietti e imbroglioni (che rimandano alle atmosfere di Suttree, il romanzo vagamente autobiografico licenziato da McCarthy nel 1979); solo ascoltando le loro storie, Bobby riesce a colmare temporaneamente il vuoto che lo perseguita.

Le sue vicende si alternano a capitoli più brevi, scritti in corsivo, che riportano le conversazioni tra Alicia e un altrettanto variegato gruppo di intrattenitori e cabarettisti guidati dal grottesco Talidomide Kid, «il cranio glabro abraso dalle cicatrici forse procurate al momento della sua inimmaginabile creazione. Le buffe scarpe a forma di remi che calzava. Le pinne da foca aperte sui braccioli della poltrona». Frutto di allucinazioni con cui la ragazza dialoga sin da quando ha avuto il primo ciclo mestruale, queste strane presenze servono a McCarthy per portare il suo testo a superare l’illusoria separazione tra mente e corpo, res cogitans e res extensa – o, se vogliamo, tra realtà e immaginazione. Uno degli interrogativi impliciti nel titolo del romanzo è, infatti, se il cervello possa considerarsi «passeggero» del corpo, o se viceversa la realtà fisica non sia una «allucinazione controllata» generata dalla psiche – come sembrano indicare le più recenti teorie delle neuroscienze.

All’esplorazione del relitto subacqueo nel Passeggero fanno da contraltare in Stella Maris le conversazioni tra Alicia e il suo psichiatra, intento a scrutare gli abissi mentali della ragazza: entrambi i romanzi si costituiscono, dunque, come missioni immersive di salvataggio. Le allucinazioni sembrano voler proteggere la mente di Alicia da se stessa, allontanando l’idea del suicidio e fornendole una forma di intrattenimento-distrazione-blocco protettivo. La sua «colpa» originaria è la hybris che l’ha spinta a cercare di oltrepassare i limiti dell’umana conoscenza. All’osservazione di Alicia – «Stavo bene prima che arrivaste» – Talidomide Kid risponde nella sua prosa irriverente, spesso volgare, ironica e allusiva ma pur sempre affettuosamente sbrigativa e a tratti farneticante – forse la più grande invenzione di quest’«ultimo» McCarthy, resa in modo eccezionale nella traduzione di Balmelli: «Certo che sei proprio un bel tipo. Lo sapevi? Guarda, te lo metto per iscritto. Come disse il puttaniere muto alla battona. Figli delle tenebre, sbavanti e degenerati, e lei che fa? Prova a guardare oltre le loro spalle».

Alicia, proverbiale nano sulle spalle di giganti, sembra essersi prematuramente imbattuta nel cuore oscuro dell’esistenza, quell’«Archatron» che regna al centro dell’universo (l’espressione, coniata da McCarthy, compariva già in Città della pianura senza ulteriori spiegazioni e ritornerà in Stella Maris) – un’entità inscrutabile e maligna, che forse ha inviato i propri emissari a «bloccare» o depistare la mente suscettibile di sconfinamenti.

Quasi a sottolineare la specularità delle esperienze dei due protagonisti, non appena Bobby comincia a investigare sul mistero del passeggero scomparso riceve la visita minacciosa di alcuni sconosciuti (forse agenti dell’FBI) che lo costringono a entrare in clandestinità e ad allontanarsi dai suoi cari. Sia Bobby sia Alicia vengono distolti dalle loro quest (così come accade al lettore che cerca una soluzione agli enigmi del testo) e forse anche questo è uno scopo dell’immaginazione, e in definitiva, dell’arte: salvarci da noi stessi, intrattenerci e «distrarci» per rimandare il momento – tutt’altro che risolutivo – della fine. Non sarà un caso se anche il protagonista di Meridiano di sangue – che tentava di arginare l’opera distruttrice del satanico giudice Holden – era chiamato semplicemente «the Kid».

Che Il passeggero costituisca un congedo dell’autore dai propri personaggi, svaniti assieme a un mondo in cui la letteratura era ancora in grado di contare, diventa chiaro in uno dei passaggi più struggenti del libro, quando Long John, truffatore spiantato a capo della cricca di New Orleans, rassicura il suo amico Bobby sulla loro comune esperienza: «Ti conosco. Conosco certi tuoi giorni d’infanzia. La solitudine quasi da piangere. La scoperta di un certo libro in biblioteca. Stringerlo al petto. Portarselo a casa. Un posto perfetto per leggerlo. Magari sotto un albero. Accanto a un ruscello. Gioventù bacata certo. Preferire un mondo di carta. Reietti. Ma noi conosciamo un’altra verità, dico bene messere? E ovviamente è vero che una gran quantità di quei libri fu scritta al posto di incenerire il mondo – che era il vero desiderio dell’autore. Ma in realtà la domanda è: siamo gli ultimi del nostro lignaggio? Albergherà, nei bambini futuri, una nostalgia di qualcosa che non sapranno nemmeno nominare?».