Doveva essere la Cop27 delle poche sorprese in un contesto di profonda divisione tra paesi dell’emisfero nord e quello sud. Non è stato così (in parte). Doveva anche essere la Cop27 dell’azzeramento della società civile e delle sue rivendicazioni climatiche in un paese ospitante, l’Egitto, dove il rispetto dei diritti umani non è in agenda almeno dal 2013, anno del colpo di Stato del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Non è stato così (in parte).

SHARM EL-SHEIKH, sede ospitante della conferenza delle parti sul clima e una delle vetrine più presentabili dal governo egiziano per i suoi resort di lusso e la lontananza da luoghi sensibili come il Cairo o Alessandria, per due settimane ha assistito a intensi negoziati in vista di un accordo generale raggiunto nella notte tra sabato e domenica.

IN UN CONTESTO CHE È STATO definito «alienante» da molti degli osservatori internazionali presenti, dove alla confusione di ogni Cop per i suoi numerosi eventi in contemporanea si è aggiunta la location del Centro congressi di Sharm el-Sheikh – integrato da padiglioni temporanei terminati all’ultimo per permettere di ospitare tutte le delegazioni dei paesi partecipanti – un’espressione precisa promette di essere un ago della bilancia molto importante nei prossimi anni per gli equilibri mondiali: loss and damage. Un fondo per le perdite e i danni a favore dei paesi più soggetti ai cambiamenti climatici come il piccolo Stato insulare di Tuvalu, rappresentato alla Cop27 dal suo ministro per il clima Ralph Regevanu: «Per noi il cambiamento climatico è la priorità, più del 50 per cento della nostra spesa di stato lo spendiamo per adattarci a degli effetti già in corso come il ciclone del 2020. Non può esserci giustizia climatica senza i diritti umani».

SONO STATI PROPRIO i diritti umani uno dei punti più discussi di questa insolita conferenza. Non tanto all’interno dei negoziati (in un primo momento sono stati citati all’interno del documento per poi essere tolti nella sua versione finale) ma per la loro presenza ai lati della Cop27. A Sharm el-Sheikh si è assistito a una serie di manifestazioni e pressioni da parte dei movimenti indigeni e della società civile per vedere riconosciuti i diritti umani in una materia come il cambiamento climatico. Le premesse non erano buone: il governo egiziano aveva previsto uno spazio dedicato alle proteste in mezzo al nulla e lontano chilometri dalla Cop.

Al netto di diversi appelli al boicottaggio per una conferenza molto discussa all’interno dei movimenti per il clima, chi ha deciso di essere a Sharm el-Sheikh ha dato vita ai momenti più intensi della conferenza delle parti. Lo si è visto in tutta la sua forza durante la people’s plenary di giovedì 17 novembre, tenutasi in una delle sale più importanti del Centro congressi. Presente ogni anno ad ogni Cop, quella di Sharm el-Sheikh si è distinta per il contesto dove si è tenuta, per il suo messaggio e anche per chi ha partecipato. A presiedere la plenaria è stato Hossam Bahgat dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, una delle ultime organizzazioni non allineate al regime di al-Sisi ancora attive nel paese. In una forte carica emotiva che ha avvolto la plenaria si sono susseguiti gli appelli di numerose categorie: movimenti indigeni, femministi e di genere, rappresentanti di sindacati e delle minoranze. «Dal Pakistan alla Nigeria, dal Corno d’Africa all’Amazzonia, dai Caraibi alle isole del Pacifico, le nostre vite non sono negoziabili. Noi non offriamo speranze per un mondo migliore ma la realtà per un mondo migliore attraverso una parola: solidarietà. La solidarietà è ciò che unisce tutti i nostri movimenti nel mondo. Noi non saremo mai sconfitti», sono state le parole di Hassam Graman del movimento Demand climate justice.

LA PEOPLE’S PLENARY si è poi risolta con una breve marcia di centinaia di persone e sotto gli occhi dei numerosi agenti di sicurezza egiziani verso i luoghi dei negoziati per rivendicare il diritto dei movimenti per il clima a essere presenti alla Cop27 con appelli chiari come lo stop definitivo all’utilizzo dei combustibili fossili, punto che nell’accordo finale ha assunto più di una sfumatura che ha lasciato insoddisfatti i paesi della sponda sud del mondo.

LA CONFERENZA DELLE PARTI ha quindi assunto tonalità differenti a seconda del contesto e degli obiettivi da raggiungere. Se per l’Egitto quella di Sharm el-Sheikh doveva essere l’occasione per mostrare al mondo il suo volto più presentabile e di fidato attore internazionale in una regione politicamente instabile come il Nord Africa, lo è stata in parte. Per due settimane in Egitto si è parlato di diritti umani e per tutta la conferenza delle parti l’attenzione dei giornali si è focalizzata su Alaa Abdel Fattah, attivista simbolo della Rivoluzione del 2011, in carcere da quasi nove anni con l’accusa di avere diffuso false notizie sui social network.

LE RIVENDICAZIONI per chiederne la scarcerazione da parte della sorella Sanaa, presente a Sharm el-Sheikh, non sono passate inosservate e si sono unite a quelle dei movimenti ambientali per tutta la durata della Cop27. Mentre la famiglia si trovava di fronte alla prigione dov’è detenuto Alaa per accertarsi delle sue condizioni di salute, che restano precarie dopo quasi un anno di sciopero della fame (e interrotto negli ultimi giorni per un incidente avvenuto in carcere), Hossam Bahgat ha letto la dichiarazione finale della plenaria del popolo: «Noi saremo sempre dalla parte dei movimenti che subiscono una costante riduzione dei loro spazi che includono repressione e criminalizzazione. Non ci può essere giustizia climatica senza diritti umani. Non resteremo mai zitti nei confronti di chi subisce ingiustizie. Con una voce chiediamo la liberazione immediata di Alaa Abdel Fattah e di tutti i prigionieri di coscienza». Le parole di Bahgat sono poi state immediatamente interrotte da poche semplici parole della plenaria, unita in una sola voce: «Free Alaa, free them all!».