ExtraTerrestre

Cop 27, il cibo che salva il clima

Cop 27, il cibo che salva il clima

Clima Alla Cop27 in Egitto per la prima volta si parla anche di agricoltura e alimentazione, eppure il complesso agroalimentare è responsabile di un terzo delle emissioni. L’agenda alternativa dell’Africa Climate Justice

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 10 novembre 2022

Malgrado le popolazioni rurali e il diritto al cibo siano le prime vittime di innumerevoli eventi estremi e malgrado il complesso agroalimentare globale sia responsabile di almeno un terzo delle emissioni climalteranti, cibo e agricoltura sono sempre stati la Cenerentola, in trent’anni di negoziati internazionali sul riscaldamento globale. E ricevono solo il 3% della finanza pubblica per il clima, a livello mondiale.

PER LA PRIMA VOLTA, NELL’AGENDA ufficiale di una conferenza sul clima, alla Cop27 (purtroppo sponsorizzata anche da Coca Cola), un giorno – sabato 12 novembre – viene dedicato all’agricoltura. Intanto, secondo la Rete globale sulle crisi alimentari, le persone in stato di insicurezza alimentare acuta che richiedono assistenza immediata sono ormai 193 milioni (su oltre 800 milioni di «semplici» malnutriti) e il rapporto Sofi 2022, sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo, mette al centro una vulnerabilità climatica sempre più grave che accentua fame, povertà e disuguaglianze.

MA COSA USCIRA’ DAL «PADIGLIONE DEL CIBO» inaugurato a Sharm dalla Fao e dal centro ricerche Cgiar per «mettere al centro la trasformazione dei sistemi alimentari affinché siano parte della soluzione»? Giorni fa si è svolta presso la Fao la Prima conferenza mondiale sulle produzioni vegetali sostenibili, ovvero, a dire dei relatori: efficienti, resilienti agli stress biologici e geopolitici, a basse emissioni, in grado di attrarre i giovani in agricoltura e ridurre la povertà rurale, con il ricorso a input bio, alla meccanizzazione e alla digitalizzazione. Tutto all’insegna dell’ottimistica formula «better 4» (produzione migliore, nutrizione migliore, ambiente migliore, vita migliore). Dal canto suo, il nuovo rapporto del centro di ricerca olandese Clim-Eat stima che occorrano circa 1.300 miliardi di dollari annui da qui al 2050 per rendere i sistemi alimentari resilienti alla nuova anormalità.

INTANTO, IL MOVIMENTO MONDIALE La Via Campesina è presente alla Cop27 con le sue parole d’ordine: una «transizione climaticamente giusta basata sull’agroecologia e sui diritti dei contadini» – produttori del 70% del cibo sul 30% delle terre coltivabili. Lvc sostiene la Cop alternativa del collettivo Africa Climate Justice (Acjc), che chiede dal livello locale a quello mondiale soluzioni reali, risarcimenti veri e la fine del controllo esercitato sui negoziati dalle multinazionali. Queste ultime «continuano a portare avanti la truffa delle zero emissioni nette – cosa diversa da zero emissioni reali», grazie a false soluzioni come il finanziamento di piantagioni commerciali di alberi destinati al taglio.

MA DUNQUE, QUALE CIBO PRODURRE, COME, per chi, quanto? Da decenni si riflette su un modello alimentare capace di nutrire tutti, equo con i produttori, non nemico della natura, rispettoso dei viventi. Risalgono agli anni 1970 le «ricette» del medico dell’Arca Pierre Parodi con il suo libro Giusta alimentazione e lotta contro la fame; e di Frances Moore Lappé autrice di Dieta per un piccolo pianeta. Nei decenni successivi, tante campagne e iniziative globali (per esempio «Un’altra alimentazione contro la fame», una ventina di anni fa) hanno sottolineato la concorrenza conflittuale fra cibo per gli umani, mangimi per gli animali, foreste per il pianeta, urgenze climatiche. Lo hanno fatto parzialmente anche studi onusiani come, nel 2006, The Livestock Long Shadow (L’ombra lunga della zootecnia). E un rapporto del 2016 curato dal gruppo di esperti (Hlpe) per la Fao, interrogandosi sul ruolo degli allevamenti nell’agricoltura sostenibile, sosteneva la necessità di ridimensionare fortemente il parco zootecnico. Numerosi poi gli studi sulla transizione verso le proteine a base vegetale (anche quelle discutibili e high-tech). E i rapporti di Greenpeace intitolati Foreste al macello sono stati un focus sul legame fra allevamenti e deforestazione.

EPPURE TUTTORA LA ZOOTECNIA a livello mondiale registra un aumento, trainato dalla domanda di prodotti animali, a sua volta alimentata. Altro che addio alle carni. La sfida urgente viene riassunta da Federica Ferrario, campaigner agricoltura e progetti speciali di Greenpeace Italia: «Il modello agroalimentare intensivo è catastrofico per il clima, gli ecosistemi e la biodiversità. Va cambiato, paese per paese, e senza greenwashing. E il fulcro della svolta necessaria è il taglio della produzione e del consumo di carne e latticini: almeno il 50% a livello globale e almeno il 70% nei paesi occidentali. Il grosso delle terre agricole è dedicato alla produzione di mangimi. Pensiamo anche all’Italia con il mais, coltura davvero idrovora, destinato alle stalle o alle colture energetiche». E sarebbe essenziale un «taglio davvero importante delle emissioni di metano, causa di un quarto del riscaldamento globale e in parte riconducibili al settore zootecnico» (non dimentichiamo poi il metano da discarica: i rifiuti organici e lo spreco di cibo).

LA GLOBAL FOREST COALITION (GFC), una rete di 124 associazioni in 54 paesi, con la sua campagna contro gli allevamenti insostenibili ha appena reso noto un nuovo rapporto, The State of Industrial Livestock in Asia. Il consumo di carne è cresciuto nel continente asiatico più che dovunque. Il trend è sostenuto da investimenti miliardari in stalle e mangimistica da parte delle prime cinque banche asiatiche per lo sviluppo – lo denuncia la Campagna contro i finanziamenti alla zootecnia – e questo rende l’Asia «un campo di battaglia nella lotta per la mitigazione e la protezione degli ecosistemi». Non solo Cina, ma Indonesia, Malaysia, Vietnam, Giappone.

NEL CONTINENTE ASIATICO la produzione di soia e mais, per nutrire molti milioni di animali in più, è ormai un fattore di deforestazione alla pari di altre monocolture, come la palma da olio. Il rapporto sottolinea poi un ulteriore fenomeno, nel quale peraltro è maestra la stessa Unione europea: il cosiddetto «ettaraggio fantasma». Buona parte dei mangimi e dei prodotti animali, infatti, viene importata in particolare dall’America latina. Le conseguenze sulle foreste sono evidenti; nel 2017 il 70% dell’importazione di bovini brasiliani da parte della Cina veniva dall’Amazzonia e dal Cerrado. Continua a espandersi il commercio internazionale di carne verso l’Asia e il Medioriente, aree dove la produzione è insufficiente rispetto alla domanda. Le previsioni per i prossimi decenni allarmano.

E UNA GUERRA ANCHE CONTRO le mangrovie, muove l’acquacoltura. La cosiddetta blue economy è la prima responsabile della perdita di questi ecosistemi costieri delicati e importanti che sono un «pozzo di carbonio» del tutto naturale.

I SISTEMI ALIMENTARI, DUNQUE, anche nella popolosa Asia devono affrontare in modo alternativo l’aumento della domanda di proteine. Conclude il rapporto della Gfc: «Alcuni segni di spostamento verso le produzioni vegetali e di maggiore sensibilità dei consumatori sono evidenti, ma sono insufficienti le azioni governative per la riduzione della zootecnia industriale e lo stop alla deforestazione legata alle produzioni agricole».

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.



I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento