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Contro l’inflazione un operatore pubblico che generi lavoro e investimenti

Contro l’inflazione un operatore pubblico che generi lavoro e investimentiIl progetto satellitare dell’Unione europea Galileo

Economia L’argine è la creazione addizionale di occupazione in primis per giovani e donne, mediante il Pnrr e oltre il Pnrr - con Programmi innovativi, ambientali e sociali

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 4 febbraio 2022

Sarebbe oggi gravemente sbagliato, oltre che inefficace, ricorrere all’armamentario a cui si fece ricorso negli anni ’70: rialzo dei tassi di interesse, restrizioni monetarie, contrazione della spesa pubblica che alla fine, comprimendo domanda, salari e occupazione, fecero impennare la disoccupazione.

Ciò che bisogna fare è proprio l’opposto: restituire, una volta di più, un forte ruolo all’operatore pubblico perché generi lavoro e investimenti in grado di sopperire alle carenze del mercato e degli operatori privati.

Infatti, oltre a una componente contingente e pertanto a breve potenzialmente riassorbile – visibile, per esempio, nell’andamento dei prezzi dei prodotti alimentari, saliti in media del 28%, dovuto a eventi in parte erratici, come alluvioni, siccità, incendi – l’attuale fiammata dell’inflazione ha una componente strutturale acclarata dalle implicazioni che la pandemia ha avuto prima sulla recessione, poi sulla ripresa globale.

I problemi emersi sono molto più di offerta che non di domanda e riguardano colli di bottiglia e deficit nelle catene di fornitura, nel sistema dei trasporti, nell’assetto (geografico e produttivo) delle fonti di energia.

Su entrambe le componenti inflazionistiche agiscono inoltre le tendenze delle finanza e andamenti speculativi, su cui aveva già richiamato l’attenzione il premio Nobel Angus Deaton segnalando quanto fosse strana l’effervescenza azionaria scoppiata in piena pandemia e su cui torna ora ripetutamente “il Sole 24 ore”, interrogandosi sulle responsabilità della spirale azionaria rialzista e sugli extraprofitti e i giochi orditi intorno alle rinnovabili e alle aste CO2.

Qui viene al pettine un nodo cruciale.

All’origine della repressione della grande inflazione degli anni ’70 e ’80 c’è stata la globalizzazione «sregolata» dei decenni successivi, tutta volta alla delocalizzazione – la cui sola minaccia, ci ricorda Daron Acemoglu, «teneva bassi i salari» – dai paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo, considerati come «un albero della cuccagna: costi bassi, disponibilità enormi» (parole di Franco Bernabè, presidente di Acciaierie d’Italia), all’inseguimento di minime differenze di prezzo anche quando le soluzioni non erano davvero più efficienti, tutto pur di mantenere bassi i prezzi e elevati i profitti e remunerare lautamente di conseguenza CEOs e manager nell’età della shared holder value, delle stock options, dei bonus finanziari.

Così, però, la priorità data all’abbassamento dei costi e dei prezzi ha del tutto sovrastato i problemi di qualità, di sicurezza, di sostenibilità, di resilienza delle catene di offerta (in cui i colli di bottiglia oggi si presentano a scacchiera e con pericolosi effetti domino) e ha dato luogo (anche sfruttando i margini offerti dalle differenziate legislazioni fiscali nei diversi paesi) a vasti fenomeni di acquisizione di rendite.

Tutto ciò spiega perché, proprio per combattere l’inflazione, l’amministrazione Biden stia combattendo una battaglia campale contro le grandi corporations. E tutto ciò dovrebbe renderci più avveduti nel maneggiare concetti di concorrenza troppo basati sui soli prezzi, concetti che, se in passato fossero stati seguiti dall’Unione europea, non le avrebbero mai consentito di far decollare un progetto straordinario come “Galileo”.

In sostanza, è difficile dissentire dalla conclusione che trae Acemoglu, secondo cui la globalizzazione basata prevalentemente sull’abbassamento dei costi e dei salari è stata «parte integrale dello slittamento dell’equilibrio fra capitale e lavoro», alla base, tra l’altro, dell’enorme spostamento di quote (oltre 10 punti) del valore aggiunto dal lavoro al capitale in grande misura dovuto alla riduzione di occupazione.

Il punto è che oggi, se anche continuassimo a ritenerla desiderabile, quella globalizzazione non è più perseguibile, perché la Cina ha deciso di contrastare gli enormi costi ambientali e sociali che essa le è costata cessando di essere la «fabbrica del mondo» e rinnovandosi dalle fondamenta.

Dunque, anche noi non dobbiamo esitare: è la creazione addizionale di occupazione in primo luogo per giovani e donne, mediante il Pnrr e oltre il Pnrr – con Programmi Pubblici esaltanti gli investimenti innovativi, ambientali e sociali – l’argine contro l’inflazione e il veicolo del nuovo sviluppo.

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