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Contro il diritto Ue la bacchetta magica non funziona

I ritratti della premier sulle pareti della Trattoria Meloni a Shengjin, in AlbaniaI ritratti della premier sulle pareti della Trattoria Meloni a Shengjin, in Albania – Giansandro Merli /il manifesto

Europa/Italia Il diritto dell’Unione europea, infatti, prevale sul diritto interno. Lo dice chiaramente la dichiarazione n. 17 allegata al Trattato di Lisbona, ma lo ha più volte detto anche la Corte costituzionale e finanche il legislatore italiano

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 23 ottobre 2024

Dal dialogo tra corti coltivato e raggiunto nel corso degli anni e applicato con i decreti del Tribunale di Roma del 18 ottobre, che hanno correttamente attuato la nozione di Paese sicuro chiarita dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, al possibile scontro tra diritto dell’Unione europea e norme interne.

L’approvazione, durante il Consiglio dei ministri del 21 ottobre, del decreto-legge sui Paesi sicuri, nell’intenzione del governo, dovrebbe assicurare la piena realizzazione del Protocollo Italia-Albania e permettere, in sostanza, che i migranti che rientrano nell’ambito di applicazione del Protocollo e che sono trasportati in Albania, se provenienti da un Paese sicuro elencato nel decreto legge, siano destinatari della procedura accelerata con un rimpatrio rapido nei propri Paesi classificati dall’Italia come sicuri.

In pratica, il governo ritiene che il semplice passaggio di quest’elenco di Paesi sicuri (da 22 a 19) dal decreto ministeriale (quello del 7 maggio 2024) a una fonte legislativa come un decreto-legge sia la bacchetta magica per permettere il funzionamento del Protocollo fortemente voluto dal governo in quanto strumento per «difendere i confini» dai migranti (che pure, nella prima applicazione del Protocollo, erano solo 12). In realtà, si tratta di un’illusione e di un errore giuridico perché l’elenco dei Paesi sicuri non è affatto blindato rispetto agli «attacchi» del diritto Ue per il solo fatto di essere contenuto in una fonte legislativa.

Il diritto dell’Unione europea, infatti, prevale sul diritto interno. Lo dice chiaramente la dichiarazione n. 17 allegata al Trattato di Lisbona, ma lo ha più volte detto anche la Corte costituzionale e finanche il legislatore italiano. In pratica, il primato del diritto dell’Unione impone al giudice nazionale, nel caso in cui ravvisi un contrasto tra una norma interna, ovunque contenuta, rispetto a una norma Ue di disapplicare il diritto interno e dare attuazione al diritto dell’Unione. A dirlo, come detto, non sono solo le fonti europee e la Corte di Lussemburgo che sin dagli anni Settanta ha stabilito che deve essere garantita la piena efficacia delle norme Ue, «disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale».

Ma c’è anche un fondamento nella Costituzione italiana, ossia, come chiarito dalla Consulta, l’articolo 11 della Costituzione. Ad ulteriore chiarimento poi, l’articolo 117 della Costituzione stabilisce che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Se, quindi, l’obiettivo del decreto-legge è quello di affermare una sorta di superiorità rispetto alle regole Ue e alle sentenze della Corte di giustizia è evidente che il risultato non sarà raggiunto.

Pertanto, il decreto-legge in corso di approvazione non servirà a disinnescare gli effetti della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea depositata il 4 ottobre (Causa C-406/22). In quella sentenza, resa a seguito del rinvio pregiudiziale dei giudici della Repubblica ceca, Lussemburgo ha chiarito la corretta interpretazione della direttiva 2013/32/UE sulle procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, stabilendo che la designazione di un Paese come Paese di origine sicuro dipende «dalla possibilità di dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni…, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante…», in tutto il territorio di un Paese terzo.

Il regime speciale e accelerato per i migranti provenienti da Paesi sicuri è, inoltre, un’eccezione alle regole generalmente applicabili e, quindi, va respinta un’interpretazione che estenda l’ambito di applicazione di questo regime speciale. Sulla base di questa sentenza, il Tribunale di Roma, con i decreti del 18 ottobre, ha applicato le regole e disposto la prevalenza del diritto dell’Unione. Che, certo, lo “stratagemma” seguito dal governo con la migrazione dell’elenco dei Paesi sicuri dal decreto ministeriale al decreto legge, non potrà intaccare.

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