«Mai più alleati con il Pd, soprattutto con questi vertici nazionali», tuona Giuseppe Conte da Pisa, la città di Enrico Letta. Che risponde a stretto giro: «Abbiamo contro la destra e quelli che vorrebbero sostituirci, ma non glielo permetteremo. Sono tutti contro di noi».

A DUE SETTIMANE DAL VOTO lo scontro tra Pd e M5S si alza ancora di tono. Conte, interpellato dai cronisti, spiega di non voler mettere becco sul futuro dei dem: «Figuriamoci se mi metto a discutere sulla loro futura dirigenza: io valuto i comportamenti di questi dirigenti nei nostri confronti, gli errori politici, il cinismo, l’opportunismo, le false accuse contro di noi. Per le vicende interne ci diranno loro». Quanto alle alleanze ancora in piedi, il leader M5S usa prudenza: «Laddove governiamo le città insieme manterremo l’impegno preso con gli elettori, ma per il futuro ci penseremo bene».

IL RAPPORTO CON LETTA, dopo il clamoroso strappo seguito alla fine del governo Draghi, sembra definitivamente lacerato. Ma Conte sa bene che dentro il Pd in tanti considerano la separazione non definitiva. A partire da Goffredo Bettini, che ieri al manifesto ha detto chiaramente che «il dialogo va tenuto aperto» e ha invitato tutti a «non alzare il tono del conflitto perché l’avversario è la destra».

Su questa linea Bettini non è solo: con varie sfumatura tutta la sinistra interna ex Ds si trova più a suo agio con il Movimento sui temi sociali e del lavoro, rispetto ad altri possibili interlocutori centristi come Calenda. Non a caso il ministro del Lavoro Andrea Orlando sta portando avanti una campagna elettorale tutta a sinistra. Ieri a Genova, al cinema Sivori dove nel 1982 nacque il Psi, ha ribadito che in Italia «il 12-13% dei lavoratori è sotto la soglia di povertà».

E che «è necessario rivedere le regole del mercato del lavoro riducendo le forme di flessibilità, di precarietà, perché le difficoltà si sono rovesciate tutte addosso ad una generazione e questo non può essere accettabile». E ancora: «La Spagna ha iniziato una strada, se ne riflette in Germania: va rivista la previsione secondo cui la competitività del Paese sarebbe passata attraverso l’aumento della flessibilità. Serve un cambiamento profondo».

IL SALARIO MINIMO, ha detto il ministro, «può salvare centinaia di migliaia di persone che si trovano in una fascia di lavoro povero». E sulla precarietà «bisogna orientare le risorse a favore della stabilizzazione e disboscare le forme contrattuali che danno tempi di lavoro eccessivamente frammentato», ha detto Orlando. «Una chiave fondamentale è utilizzare molto l’apprendistato ed eliminare forme come il contratto a chiamata».

QUANTO AL JOBS ACT, «ha funzionato finché c’è stata una forte decontribuzione e una incentivazione alla stabilizzazione. Poi, quando le risorse non sono più state stanziate, doveva funzionare in automatico, ma così non è stato. Non è una disputa ideologica, perché oggi, come emerge dai dati, non abbiamo mai avuto così tanti precari nel nostro Paese».

ANCHE IL LEADER PD ieri a Torino ha ribadito che «il lavoro è il cuore della nostra proposta», facendo ammenda per le «sottovalutazioni del passato». Sulla stessa linea il vicesegretario Giuseppe Provenzano, che venerdì alla festa Fiom a Torino ha detto alle tute blu: «Abbiamo riconosciuto gli errori. Scusate il ritardo, a nome di tutto il Pd». Per poi spiegare che «il jobs Act ha segnato la rottura tra il Pd e il mondo del lavoro». Alla stessa festa Fiom il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni è stato ancora più netto e ha promesso di abolire il Jobs Act e una legge sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.