«Con la caccia ai nuovi giacimenti andiamo verso il suicidio climatico»
Intervista Il professore Marco Grasso: «I nuovi progetti di gasdotti ci bloccano nel consumo di gas per altri decenni»
Intervista Il professore Marco Grasso: «I nuovi progetti di gasdotti ci bloccano nel consumo di gas per altri decenni»
Si intitola Benzina sul fuoco la serie di podcast dedicati alla relazione fra l’industria petrolifera e la crisi climatica. Usciva proprio in concomitanza con la COP 27 di Glasgow. Intervistiamo uno degli autori, Marco Grasso, professore di Geografia Economica e Politica all’Università Milano-Bicocca, che sullo stesso tema ha scritto, assieme al giornalista Stefano Vergine, il libro Tutte le colpe dei petrolieri.
Professor Grasso, a distanza di un anno cosa è successo in termini di dipendenza dai combustibili fossili?
La situazione non è migliorata, anzi. E’ in corso una caccia ai giacimenti in giro per il mondo, i piani industriali delle compagni petrolifere, nonostante la facciata green che si danno, vanno avanti nello stile busisness as usual. A maggio di quest’anno The Guardian ha rivelato attraverso la pubblicazione di uno studio, che le maggiori compagnie petrolifere mondiali stanno portando avanti silenziosamente progetti di ricerca ed estrazione di risorse fossili che sono stati denominati carbon bombs per l’impatto che avranno sulla crisi climatica: si tratta di 195 progetti, il 60% dei quali sono già partiti, ognuno con emissioni durante il proprio corso di vita superiori alle 100 milioni di tonnellate di anidride carbonica; messi insieme questi progetti produrranno quantità di gas serra 10 volte superiori a quelle attuali in Cina, se condotti a termine sono in grado di impedire il raggiungimento del limite di 1,5°C di incremento del riscaldamento globale previsto dagli accordi di Parigi del 2015. Un altro elemento è che grazie ai loro straordinari profitti, le compagnie petrolifere hanno pianificato nell’ultimo anno nuovi oleodotti e gasdotti per 24 mila chilometri.
Colpisce la differenza di attenzione mediatica fra le due COP, a cosa è dovuto?
Secondo me ci sono due ordini di cause; da una parte c’è il fatto che siamo stanchi di questi 27 anni di promesse a cui non ha fatto seguito granché e siamo distratti da problemi che percepiamo come più urgenti; dall’altra c’è la specificità delle varie COP: alcune hanno un carattere più politico quindi hanno un peso maggiore, come quella di Copenaghen o Parigi; quella dello scorso anno a Glasgow era importante anche dal punto di vista simbolico, perché si sarebbero dovute incrementare le ambizioni di mitigazione dei singoli paesi. Questa COP, come quella di Abu-Dabi del prossimo anno, sono più «tecniche», dovrebbero rendere operative decisioni già prese. Una delle misure che Sharm dovrebbe finalmente concretizzare è quella dell’adaptation fund, un fondo dentro cui i paesi ricchi hanno promesso di mettere, tra il 2020 e il 2025, 100 miliardi di dollari l’anno, soldi che non si sono ancora visti. Una questione poi che è stata con decisione messa ai primi punti dell’ordine del giorno della COP di Sharm è quella delle compensazioni per i danni subiti; anche sulla scorta dell’onda emotiva seguita al disastroso alluvione in Pakistan, una serie di paesi più vulnerabili sta chiedendo che venga dato seguito a quanto già prefigurato nella COP di Varsavia, ovvero una compensazione economica per i danni provocati dai cambiamenti climatici in questi paesi fragili.
L’obiettivo della COP di Parigi è ancora valido?
Se ci impegnassimo veramente io credo che sarebbe possibile rimanere al di sotto dei due gradi, ma tutte le finestre di opportunità si stanno chiudendo rapidamente. Il rapporto State of the Global Climate dell’organizzazione meteorologica mondiale, uscito pochi giorni fa, afferma che gli ultimi 8 anni sono stati i più caldi di sempre, negli ultimi mesi siamo stati sommersi da una raffica di rapporti drammatici, il segretario dell’Onu Guterrez ha dichiarato per l’ennesima volta che ci stiamo dirigendo verso il suicidio climatico. L’emergenza è evidente e l’inerzia diventa sempre meno comprensibile e giustificabile. Una macchina fossile che sembra impossibile da fermare: a parte il petrolio e il carbone poi, si continua a parlare del gas come una soluzione. I vari progetti di gasdotti e rigassificatori ci bloccano nel consumo di gas per altri decenni, fattore incompatibile con gli obiettivi di riduzione delle emissioni.
E’ realistico affermare che possiamo fare a meno dei combustibili fossili?
Sì. Quest’estate l’IEEE, la più grande organizzazione mondiale dedicata all’avanzamento tecnologico, ha pubblicato una ricerca a cura di 15 istituzioni universitarie di fama internazionale che dice proprio questo. Si tratta di un meta-studio, ovvero di un analisi di centinaia di altri studi dedicati ai sistemi di energia rinnovabile al 100%, un campo di ricerca di recente sviluppo e che sta producendo un numero crescente di lavori. La conclusione della maggior parte di questi studi in generale è che i sistemi 100% rinnovabili, basati in gran parte sull’energia solare ed eolica, sull’accumulo di energia, sull’accoppiamento settoriale e sull’elettrificazione diretta e indiretta di quasi tutta la domanda di energia, sono raggiungibili in ogni parte del mondo ed economicamente sostenibili. In particolare, il meta-studio divulgato quest’anno dimostra che questi sistemi possono andare incontro alla domanda energetica a livello globale, regionale e nazionale entro se non addirittura prima del 2050.
Quindi la decarbonizzazione totale del pianeta sarebbe possibile in tempo utile?
E’ possibile tecnicamente ed economicamente. E’ chiaro che una certa componente di combustibili fossili ci serve ancora per produrre per esempio alcune plastiche specifiche, ma per il resto le tecnologie ci sono, le abbiamo a disposizione, costano meno; da due anni l’Agenzia Internazionale dell’Energia dice che il solare è la forma di energia più economica che abbiamo mai avuto: è una questione di inerzia, di mancanza di volontà politica: secondo me esiste ancora un blocco «gramsciano» di potere composto da industria e parte della classe politica che impedisce anche solo di immaginare che uscire dai fossili sia possibile.
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