Come rielaborare un fallimento
Tracce e percorsi «Genova, vent'anni dopo» il libro di Giovanni Mari edito da People. In quei giorni, da cronista e da genovese, l'autore ha respirato concretamente il fallimento delle istituzioni, della politica, ma anche di quelle piazze che ritiene siano cadute nella trappola che era stata tesa loro: anche se considerare gli errori di molti non significa dimenticare dove si è prodotta la ferita più terribile
Tracce e percorsi «Genova, vent'anni dopo» il libro di Giovanni Mari edito da People. In quei giorni, da cronista e da genovese, l'autore ha respirato concretamente il fallimento delle istituzioni, della politica, ma anche di quelle piazze che ritiene siano cadute nella trappola che era stata tesa loro: anche se considerare gli errori di molti non significa dimenticare dove si è prodotta la ferita più terribile
Non è un libro facile quello che Giovanni Mari ha proposto in vista dell’anniversario del G8, Genova, vent’anni dopo (People, pp. 170, euro 15). Non lo è perché testimonia della memoria dolente di chi come lui, genovese, cronista del Secolo XIX durante quei giorni, uomo di sinistra da sempre, ritiene di aver visto consumarsi in quella vicenda l’ultimo slancio di molte delle possibilità di cambiamento a cui guardava con interesse e sincera passione.
Ma, allo stesso tempo, si tratta di un testo che con lo spirito del pamphlet traccia un’analisi implacabile di quello che considera un fallimento generalizzato, senza fare sconti a nessuno e per certi versi senza concedere alcuna possibilità di appello. Per Mari nel luglio del 2001 hanno infatti fallito tutti: dai grandi della Terra alla politica italiana, dalle forze dell’ordine alla magistratura passando per i massa media e finendo allo stesso «movimento dei movimenti». Con il risultato che l’annunciato «altro mondo possibile» ha finito per tramutarsi in un presente grigio e oppressivo, scandito da una rinnovata egemonia della destra e dal primo manifestarsi dei «populismi» poi dilaganti.
IL GIUDIZIO è pesante, quasi inappellabile e non facile da accogliere. Ma è tutt’altro che frutto dello scoramento e del dolore del momento. Al contrario, è il sedimentarsi del tempo, della riflessione e ciò che a quella stagione ha fatto seguito, a spingere l’autore verso una dolorosa chiarezza. «Mi sono tenuto dentro un urlo soffocato. Ora che quattro lustri sono passati e che il G8 può passare alla Storia, ora che nessuno può più avere remore a dire la verità, o meglio ad ammetterla, sento il bisogno di liberare la mia angoscia», confida Mari.
Da inviato sul campo ha vissuto quell’evento senza precedenti, imparagonabile anche per la memoria lunga della città sia all’insorgenza del ’60 per il congresso dell’Msi che al ’68 e al ’77. Ne ha vissuto, come ci tiene a sottolineare «la preparazione politica, militare e militante», raccontandone lo sviluppo e gli esiti dalla redazione del quotidiano locale. Poi, ha aspettato vent’anni per tirare le somme di quanto accaduto in quei giorni che conobbero anche una vasta eco internazionale, prima che gli aerei lanciati contro i grattacieli di Manhattan la mattina dell’11 settembre, solo qualche settimana più tardi, cambiassero nuovamente la storia del mondo.
E IN QUEI GIORNI genovesi Giovanni Mari ha respirato concretamente il fallimento delle istituzioni, della politica, ma anche di quelle piazze che ritiene siano cadute nella trappola che era stata tesa loro: anche se considerare gli errori di molti non significa dimenticare dove si è prodotta la ferita più terribile. Poi, con gli anni il ricordo e la ricerca, spesso invano, della giustizia hanno lasciato il campo ad una nuova fase dove «la lotta alla globalizzazione, nata su istanze di sinistra, ha abdicato alla lotta alla mondializzazione, cresciuta su radici di destra». E i movimenti, almeno in parte, alla democrazia dei followers, alle aggregazioni della Rete.
Sullo sfondo, la constatazione che del G8 «restano (perciò) solo singole vittorie private, di chi era per quelle piazze, in quei giorni». E che può aver vinto solo una concezione di Genova «intesa come un senso intimo di appartenenza. Di conoscenza della realtà, della verità».
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