Ormai da molti anni, di fronte al problema della disoccupazione, le politiche attive del lavoro sono chiamate in causa come lo strumento in grado di garantire nuova occupazione, specie per i percettori di sussidi o per chi è alla ricerca di un nuovo lavoro. Nell’accezione che domina il dibattitto pubblico, i problemi della mancata occupazione sono interpretati come l’esito di un disallineamento (mismatch) tra domanda e offerta di lavoro, su cui intervenire con percorsi di reinserimento differenziati a seconda dei gruppi target tra stage, tirocini, formazione, incentivi alle assunzioni e via dicendo. Si tratta insomma di agire sulle condizioni che favoriscono l’occupabilità e l’adattabilità alle richieste del mercato.

Ma come garantire l’occupazione quando la domanda di lavoro non c’è o è stagnante come in molti territori del Mezzogiorno e anche aree interne delle regioni Settentrionali?

L’impatto della pandemia e l’emergenza occupazionale che già oggi il paese si trova a fronteggiare a causa delle tensioni internazionali e del rallentamento della ripresa che era attesa, rischiano di deteriorare ulteriormente un mercato del lavoro già segnato da ampie sacche di cattiva occupazione e bassi salari. Se nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani era povero (o working poor), contro una media europea del 9,2%, con la crisi pandemica le cose sono andate peggiorando, per effetto dell’aumento dei contratti atipici e anche della diminuzione del reddito di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali introdotte dal governo. Tra gli stessi beneficiari di Reddito di Cittadinanza, se gli inattivi, secondo l’ultima indagine Inapp-Plus 2021, sono il 29,4% e i disoccupati il 24,8%, quelli che hanno trovato un lavoro (pagato poco) sono saliti al 45,8%, dal 37% del periodo pre-pandemico.

Con il PNRR e con il nuovo programma GOL (Garanzia di Occupabilità Lavoratori) le politiche attive del lavoro saranno oggetto di un potenziamento senza precedenti in termini di risorse umane (raddoppio degli organici dei Centri per l’Impiego) e capacità di presa in carico e profilazione. I risultati rischiano tuttavia di rimanere al di sotto degli obiettivi dichiarati, soprattutto per i beneficiari più fragili (disoccupati di lungo periodo e beneficiari di Reddito di Cittadinanza), se al potenziamento delle politiche attive non faranno seguito anche interventi volti a stimolare direttamente l’occupazione.

Detto in altri termini, se l’economia ristagna e la domanda non c’è, non bastano le politiche attive, tanto meno le condizionalità più o meno stringenti, quando non punitive, associate alle misure di reddito minimo garantito. Occorre lavorare per crearlo direttamente il lavoro. Alcune sperimentazioni che iniziano a diffondersi in diversi paesi europei vanno in questa direzione. In Francia il programma Territoires zéro chômeur de longue durée punta da qualche anno a promuovere la creazione diretta di nuovo lavoro a partire da partenariati territoriali partecipati da enti locali, centri per l’impiego, reti associative, imprese e parti sociali. Nei Territori a disoccupazione zero, i posti di lavoro creati non sono in alternativa con quelli delle imprese private, né sono lavori socialmente utili o para-pubblici.

Si tratta a tutti gli effetti di lavoro necessario a soddisfare bisogni scoperti di varia natura (sociali, culturali, ambientali, produttivi) che possono diventare uno sbocco concreto per i disoccupati. Il punto di partenza non sono i bonus o gli incentivi, né le politiche attive del lavoro, ma la mappatura dei bisogni territoriali su cui su cui innestare conseguenti misure di attivazione, formazione e incentivazione finanziaria per le assunzioni. È stato stimato un costo a carico dello Stato francese per ogni posto di lavoro creato di 18 mila euro, pari alla spesa media per sussidi e assistenza per ogni beneficiario. Troppo? Diseconomico? Non è questo il punto.

L’obiettivo è trasformare la spesa in sussidi in spesa per creare lavoro pagato, attivando circuiti locali di nuova occupazione grazie alla cooperazione tra i territori, gli enti locali, le piccole imprese e i molteplici soggetti del terzo settore, già da tempo attivi nella sperimentazione di nuovi modelli di imprenditoria sociale o nella riconversione di imprese esistenti, rilanciate attraverso la forma cooperativa.

La riorganizzazione delle politiche attive può giovarsi molto di alleanze di questo tipo, arricchendo la cassetta degli attrezzi a disposizione di regioni e enti locali, soprattutto dove la carenza strutturale di domanda limita il potenziale degli interventi tradizionali sul mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Per fare questo occorrono risorse (che però oggi sono) ma soprattutto un cambio di approccio alle politiche del lavoro, da rendere funzionali non a qualche tirocinio, stage o programma di formazione professionale, ma alla creazione di nuova domanda di lavoro.