«Non commettete i nostri stessi errori». Con questo monito dal suono quasi paterno il presidente statunitense Joe Biden ha invitato Israele a non comportarsi come gli Usa dopo l’11 settembre. La dichiarazione ha un valore enorme e potrebbe riassumere da sola l’importantissima visita di ieri del capo di stato a Tel Aviv. Significa vi capiamo, «siamo passati attraverso lo stesso dolore», e perciò vi saremo vicini. Significa anche che, nell’ottica di Washington, Israele ha il «diritto di rispondere». Ma, dato che «sono stati commessi degli errori» e Biden sembrava qui apposta per sottolinearli – con un atteggiamento autocritico che gli Usa raramente hanno mostrato nel tempo – «fermatevi».

IN ALTRI TERMINI: gli Usa non vogliono che l’esercito israeliano invada Gaza. Difficile dirlo più chiaramente di così. Il perché non è semplice da spiegare ma proviamo a indicare le ragioni principali. O almeno le più evidenti. Biden ha dichiarato «voglio che il mondo sappia da che parte stanno gli Stati uniti». Non dalla Casa bianca, non da una conferenza stampa fuori al Senato, ma da Tel Aviv, accanto al premier israeliano. La sua presenza qui è un monito all’Iran, a Hezbollah, alla Siria, a chiunque pensi che questo sia il momento per scatenare un conflitto contro Israele. «Se pensate di attaccare Israele, rinunciate a quest’idea, non fatelo» ha ammonito, in quanto con il sostegno americano, «oggi Israele è più forte che mai».

TALE SOSTEGNO consiste nella minacciosa presenza della portaerei Ford, il gioiello della marina a stelle e strisce, al largo delle coste settentrionali israeliane, di un’altra portaerei d’appoggio a poca distanza, di 2 mila uomini «specializzati» (non militari sul campo dunque) per affiancare le forze armate locali e di ingenti forniture di munizioni per riempire le casematte. Non solo chiacchiere, dunque. Anche perché il leader democratico è arrivato a definirsi «sionista», dato che «non è necessario essere ebrei per essere sionisti». «C’è solo una cosa migliore di avere un vero amico come lei, presidente» ha risposto raggiante (come non lo si vedeva da tempo) Netanyahu, «ed è la sua presenza qui, profondamente commovente». Dal pulpito il primo ministro israeliano ha anche invitato il «mondo civile» a «unirsi per sconfiggere» Hamas. E, in ogni caso, «posso assicurarle presidente che Israele è unito e che sconfiggerà Hamas». E forse sta proprio qui il problema. Biden è volato in Israele per smorzare i toni, non per infiammarli. D’altronde che bisogno c’era di precipitarsi dall’altra parte del mondo a meno di una settimana dalla visita del segretario di Stato Antony Blinken? Evidentemente, serviva la presenza del capo per esercitare il massimo potere persuasivo possibile.

In primis, Biden ha annunciato che Israele ha accettato di permettere l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza «il prima possibile». Più tardi una fonte governativa ha confermato che, proprio in virtù delle richieste degli Usa, sono in discussione «soluzioni alternative per forniture minime» dalla frontiera egiziana verso Gaza. Si tratterà di «medicine, cibo e acqua per gli sfollati» che dal nord della Striscia sono stati costretti dagli ultimatum e dai bombardamenti israeliani a fuggire al sud, ma «a patto che gli aiuti non arrivino ad Hamas». Tuttavia, Tel Aviv si rifiuta «di inoltrare aiuti verso Gaza dal territorio israeliano finché non saranno liberati gli ostaggi». Ma Biden era soddisfatto e ha anche annunciato con la cadenza lenta e il tono solenne del caso di aver destinato «100 milioni di dollari di fondi Usa per l’assistenza umanitaria a Gaza e in Cisgiordania».

D’ALTRONDE, se da un lato «bisogna fare giustizia», non bisogna lasciare «che questa rabbia vi consumi». Biden ha anche sottolineato che «le scelte non sono mai facili» e «c’è sempre un prezzo da pagare» perché «richiedono una valutazione onesta». Ma «la maggioranza dei palestinesi non sono Hamas» e «anche la perdita di vite palestinesi conta».
L’ultima dichiarazione, da sola, meriterebbe un libro: quell’ «anche», la necessità di sottolineare che «conta» come se non si stesse parlando di persone come le altre, quasi come se fosse una frase insolita da pronunciare. Ma concentriamoci sullo scopo di Biden: evitare che i generali israeliani compiano una mattanza. Per far ciò l’amministrazione Usa aveva programmato il viaggio del presidente fin nei minimi particolare. Dopo il Consiglio di guerra e il premier israeliano, Biden avrebbe dovuto incontrare il presidente dell’Autorià nazionale palestinese, Abu Mazen, il presidente egiziano al-Sisi e il re giordano Abdallah. L’attacco all’ospedale Al Ahli di martedì sera ha però stravolto i piani. Tra l’altro nella conferenza stampa alla fine dell’incontro con Netanyahu Biden ha affermato di «avere dati» certi che gli permettono di affermare che la responsabilità non è israeliana. Ma i leader arabi avevano già comunicato il proprio rifiuto a incontrare il capo di stato. Dunque, gli Usa non potranno tentare di costruire una piattaforma condivisa con un leader palestinese a e non potranno convincere giordani ed egiziani a fare dei passi verso eventuali profughi palestinesi.

LA SECONDA PARTE del viaggio era forse ancora più importante della prima perché sarebbe servita a Biden per avere qualcosa da offrire concretamente a Tel Aviv per il dopo-Hamas. Al momento, tuttavia, non è stato possibile. Anche se i rispettivi uffici stampa hanno dichiarato che le parti organizzeranno dei colloqui telefonici. La diplomazia Usa, insomma, ha ancora molto lavoro da fare per evitare che «il grande amico» israeliano si lanci in un’operazione che Washington vorrebbe scongiurare in tutti i modi per evitare di destabilizzare la regione e di alienare il sostegno internazionale a Israele.