Il prossimo novembre sarà il mese della Cop28 di Dubai. Ci avviciniamo all’appuntamento con molte domande sul futuro dei nostri ecosistemi. C’è una questione, però, che forse più di tutte non può essere trascurata e rinviata: la richiesta di risarcimento da parte delle popolazioni del Sud del mondo ai Paesi sviluppati per i danni irreversibili causati dalle emissioni e dalle condizioni meteorologiche e climatiche estreme.

Dal 30 novembre al 12 dicembre 2023, sul tavolo dei negoziati si dovrà dar vita a quello che è stato ribadito il 3 maggio nella 14° Petersberg Climate Dialogue di Berlino: aiutare le comunità fragili, come quelle dell’Isola Marshall, che, malgrado i numerosi sforzi di adattamento, rischiano di scomparire. E attuare il «Loss and Damage» approvato a Sharm el-Sheik. Ma fino ad ora non è stata definita la forma che assumerà, non sono stati individuati i Paesi che dovranno contribuire e quelli che avranno il diritto di ricevere i fondi.

Non sappiamo quanto dovrebbero versare gli Stati nel fondo e quali sono esattamente i Paesi e le istituzioni finanziarie che gestiranno le entrate economiche. Il rischio di arrivare alla prossima Conferenza delle Parti impreparati è reale. Mancano sei mesi e il sultano Ahmed Al Jaber, presidente della Cop28 e dirigente della Abu Dhabi National Oil Company, ha già anticipato: «Se il mondo non escogita meccanismi efficaci per fornire finanziamenti per il clima alle economie in via di sviluppo ed emergenti, queste non potranno non scegliere un percorso di sviluppo ad alta intensità di carbonio». E ha poi aggiunto: «Sappiamo che i combustibili fossili continueranno a svolgere un ruolo nel prossimo futuro nell’aiutare a soddisfare il fabbisogno energetico globale. Il nostro obiettivo dovrebbe essere focalizzato sulla garanzia di eliminare gradualmente le emissioni da tutti i settori».

DI FRONTE A QUESTO SCENARIO e ai vari annunci di voler coniugare giustizia climatica giustizia sociale, sembrano ancora attuali le parole pronunciate nella plenaria di chiusura della Cop27 dall’olandese Franciscus Timmermans, del Partito del Lavoro (PvdA) e Commissario per il clima e il Green Deal europeo: «Non siamo stati all’altezza delle azioni per evitare e ridurre al minimo perdite e danni. Avremmo dovuto fare molto di più. Ciò significa ridurre molto più rapidamente le emissioni.

È così che contrastiamo il cambiamento climatico». In altri termini, occorre un’azione congiunta tra i maggiori emettitori, quelli indicati dal Rapporto CO2 emissions of all world countries pubblicato dalla Commissione europea: Cina, Usa, Paesi europei, India, Russia, Giappone. Perché il tempo a disposizione è poco: se gli attuali livelli di emissione persistono, ci dicono gli scienziati, la soglia critica di 1,5° del riscaldamento globale potrebbe essere raggiunta e superata in nove anni.

Ritornando alla questione dei finanziamenti, possiamo dire che in fin dei conti all’Expo City Dubai la negoziazione potrebbe concludersi con l’attuazione di un piano per il clima già visto, quello del Green Climate Fund destinato ai Paesi in via di sviluppo. Istituito formalmente nel 2010, il Gcf non sta ottenendo i risultati auspicati: l’accesso al credito è troppo difficoltoso.

Per Oxfam non ci sono dubbi: la rendicontazione dei finanziamenti internazionali per il clima è viziata e ingiusta. Il vero valore del contributo nel 2020 è tra 21 e 24,5 miliardi di dollari, a fronte di una cifra di 68,3 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici dichiarata dai Paesi ricchi. «La nostra finanza climatica globale è un treno rotto: decisamente difettosa e ci fa correre il rischio di raggiungere la catastrofe come destinazione. Ci sono troppi prestiti che indebitano i Paesi poveri che stanno già lottando per far fronte agli shock climatici, e sono troppe le segnalazioni di scarsa trasparenza.

IL RISULTATO È CHE I PAESI PIÙ VULNERABILI non sono preparati ad affrontare la furia della crisi climatica», ha puntualizzato Nafkote Dabi, responsabile delle politiche climatiche di Oxfam. Ed è proprio la cancellazione del debito il vero nodo da sciogliere che spesso viene ignorato quando si parla di crisi climatica e di transizione energetica. Lo ha confermato anche ActionAid. Il legame debito-impatto climatico è un pericoloso circolo vizioso. Il dossier The Vicious Cycle ,pubblicato ad aprile dalla onlus, ha rivelato che il 93% dei Paesi vulnerabili al clima è a rischio significativo di indebitamento, ed è dipendente dalle politiche e dalle condizioni stabilite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che è sia il prestatore di ultima istanza sia il riscossore.

PERTANTO I FINANZIAMENTI PER IL CLIMA hanno senso soltanto se non alimentano la crisi economica del Paesi fragili, e se non vengono sottoposti ai vincoli e controlli come quelli del Fmi e della Banca Mondiale. Il Fmi considera il pagamento del debito una priorità assoluta, a prescindere dalle altre priorità che i governi potrebbero avere (sanità, istruzione, adattamenti climatici, ecc). Una mannaia per chi vive nei Paesi poveri, perché i debiti non consentono ai governi di poter investire nei servizi pubblici principali. I tagli sono inevitabili quando la spesa è più del 12% delle entrate.

Se la percentuale supera il 14%, poi, il Paese finirà in default. E le principali vittime delle crisi sono le donne: le prime a perdere l’accesso ai servizi, le prime a perdere posti di lavoro pubblico, le prime a farsi carico del lavoro di assistenza e cura non retribuito che aumenta quando il servizio pubblico fallisce o quando si verificano disastri causati dal clima.

Più in generale, questo circolo vizioso condiziona le politiche e l’autonomia degli Stati: è il volto del colonialismo che costringe i governi ad adeguare le loro economie e la società alle richieste del mercato globale per ripagare i loro debiti, per lo più in dollari. E così per guadagnare in valuta estera, i Paesi a basso reddito facilitano l’agricoltura chimico-industriale, la deforestazione, l’industria estrattiva. Distruggono l’ambiente e calpestano i diritti umani.