Clarence Thomas: l’identità nera come cavallo di Troia della reazione
Nessuno ci può giudicare Il giudice è la figura simbolica rappresentativa dell'abolizione del diritto costituzionale all'aborto: secondo nero alla Corte suprema, nominato da Bush senior, dopo una carriera in cui si era distinto per i costanti attacchi a tutta la storia dei movimenti afroamericani a cui doveva quegli stessi diritti che avevano reso possibile la sua nomina
Nessuno ci può giudicare Il giudice è la figura simbolica rappresentativa dell'abolizione del diritto costituzionale all'aborto: secondo nero alla Corte suprema, nominato da Bush senior, dopo una carriera in cui si era distinto per i costanti attacchi a tutta la storia dei movimenti afroamericani a cui doveva quegli stessi diritti che avevano reso possibile la sua nomina
Non finisce qui. Come ha chiarito nella sua motivazione il giudice della corte suprema Clarence Thomas, il prossimo passo saranno la contraccezione, i rapporti omosessuali e i matrimoni fra persone dello stesso sesso. Clarence Thomas è la figura simbolica rappresentativa di questa vicenda: il secondo giudice afroamericano della Corte suprema, nominato non da Trump, ma da George W. Bush senior nel 1991, dopo una carriera in cui si era distinto, all’ombra di Reagan, per i costanti attacchi a tutta la storia dei movimenti afroamericani a cui doveva quegli stessi diritti che avevano reso possibile la sua carriera. «L’identità razziale di Thomas», scriveva dopo la sua nomina lo storico Manning Marable, «o qualunque connessione possa avere avuto con la comunità afroamericana, erano in secondo piano rispetto al suo ruolo di paladino legale di politiche reazionarie», utile a legittimarle proprio per la sua identità nera: il veicolo perfetto della strategia repubblicana che mira a creare un elettorato afroamericano conservatore legittimandolo con l’integrazione “simbolica” di facce nere rappresentative. In un famoso saggio del 1992, Friday on the Potomac, Toni Morrison bolla Thomas come la nuova incarnazione del Venerdì di Robinson Crusoe: il subalterno che ha imparato a parlare solo ripetendo le parole che gli ha messo in bocca il suo padrone. Morrison mostrava come fin dal modo in cui lo presentavano i suoi sostenitori, manipolando sottilmente ma sfacciatamente i sottintesi razziali del linguaggio, dai riferimenti al suo corpo all’invenzione di una storia di uscita meritocratica dalla povertà, e sempre sorvolando sulle sue non indiscutibili qualità di giurista, Clarence Thomas era la perfetta icona del nero docile e affidabile di cui la destra repubblicana aveva bisogno.
Questo progetto tuttavia incontrò un ostacolo: una donna – nera anche lei, di nome Anita Hill – accusò Thomas di molestie sessuali – e venne a sua volta inchiodata ad altri stereotipi sulle donne nere. Le udienze pubbliche del comitato giustizia del congresso per la conferma della nomina di Thomas si trasformarono in un circo televisivo in cui le parole di una donna erano schernite e ignorate da un’istituzione dove le differenze fra repubblicani e democratici erano secondarie rispetto alla condivisa ideologia maschile (e bianca): che volete che sia, lo sappiamo come sono fatti i neri, Anita Hill si inventata tutto perché è «razzialmente gelosa» del fatto che Thomas ha sposato una donna bianca (che, come emerge in questi giorni, era direttamente coinvolta nel tentativo di Donald Trump di annullare l’esito delle ultime elezioni)… Come sempre, l’onere della prova stava dalla parte della donna. La commissione giustizia del congresso rifiutò di ascoltare alcune testimoni che avrebbero potuto confermare le accuse di Anita Hill: il presidente di quella commissione era un senatore democratico del Delaware, di nome Joe Biden.
Aveva ragione Toni Morrison a scrivere che al centro della vicenda stavano l’identità “razziale” e il corpo nero di Clarence Thomas, entrambi strumentali a ribadire i rapporti di razza, di genere, di classe. Ma su un’altra cosa si sbagliava: «Una così pesante accusa di cattiva condotta sessuale», scriveva, «probabilmente avrebbe reso immediatamente impresentabile qualunque candidato bianco e avrebbe costretto il comitato a cercare un altro candidato piuttosto che sottoporsi a un pubblico dibattito su un’accusa così odiosa». Era troppo ottimista. Da allora, la storia è andata avanti e certi scrupoli sono superati.
Nel 2018, Donald Trump nomina alla corte suprema un giudice conservatore (bianco) di nome Brett Michael Kavanaugh. Nel corso delle udienze di conferma, almeno tre donne accusarono Kavanaugh di aggressione e molestie sessuali; a questo si aggiungevano decine di denunce di violazioni del codice etico, su cui la commissione decise di non indagare. Non era neanche più questione di bianco e nero, ma di schieramenti partitici diventati impermeabili: la commissione approvò la candidatura di Kavanaugh con 11 voti repubblicani contro 10 democratici. Così, almeno due dei sei giudici che hanno votato per cancellare l’aborto dai diritti costituzionali hanno una storia di molestie e aggressioni sessuali, e sono l’espressione di una cultura che non tollera il diritto delle donne di disporre del proprio corpo e della propria sessualità. Nel 1992, Manning Marable affermava che «l’ostilità di Thomas alla libertà di scelta della donna sull’aborto avrebbe significato che migliaia di donne nere saranno sottoposte alla macelleria da vicolo». Adesso ci siamo: dopo trent’anni, la strategia che ha portato Clarence Thomas alla corte suprema dà i suoi frutti. E non è che un inizio.
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