«Finché morte non ci separi». Non solo le nozze nell’antica e ormai desueta formula religiosa, ma anche la cittadinanza italiana, per chi la acquisisce tramite il matrimonio, ha avuto finora per legge la morte del coniuge come un termine di dissolubilità. Nella sentenza depositata ieri però la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 «nella parte in cui non esclude, dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del procedimento di cui al successivo articolo 7, comma 1». Ovverosia, dopo che il richiedente abbia presentato istanza al «sindaco del comune di residenza o alla competente autorità consolare».

Una sentenza, la n° 195 della Consulta (redattrice la giudice Emanuela Navarretta), che ripara almeno uno degli obbrobri contenuti nella legge vigente, in mancanza di una vera riforma del diritto di cittadinanza quale sarebbe stato il cosiddetto «ius scholae», testo ormai affossato definitivamente dopo lo slittamento a settembre dell’iter nel calendario della Camera, e la sopravvenuta fine della legislatura.
Il caso, sollevato davanti ai giudici costituzionali dalla sezione civile del Tribunale di Trieste, riguarda una cittadina ucraina residente in Italia dal 2007 che aveva continuato a vivere nel nostro Paese anche dopo aver sposato, nel 2009, un italiano. Nel 2011 la donna fa richiesta di cittadinanza ma tredici mesi dopo, nel 2012, il marito muore.

A quel punto trascorrono appena nove mesi (la tempistica dice molto di questa e di altre storie di migranti) che la signora, ormai vedova, si vede «notificato un provvedimento con cui tale istanza era dichiarata improcedibile a causa del decesso del coniuge». L’art. 5 della legge 91/1992 infatti prevede che la cittadinanza italiana si possa acquisire dopo il matrimonio se il richiedente «risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora, al momento dell’adozione del decreto di cui all’articolo 7, comma 1, non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi». Separazione che ovviamente anche la morte causa.

Una norma che, secondo la Corte costituzionale, «è intrinsecamente irragionevole e, dunque, in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione», in quanto la morte «pur se scioglie il vincolo matrimoniale, non fa venire meno, tuttavia, la pienezza delle tutele, privatistiche e pubblicistiche, fondate sull’aver fatto parte di una comunità familiare, basata sulla solidarietà coniugale, e dunque non può inibire la spettanza di un diritto sostenuto dai relativi presupposti costitutivi».