Cisgiordania in trappola. E i soldi stanno finendo
Palestina La chiusura totale imposta dal 7 ottobre ferma la vita e il lavoro: "Non ci si muove per una combinazione di fattori: per i checkpoint, ma anche per le violenze dei coloni. Attaccano gli autobus con le pietre". 50, 60, 70 arresti ogni notte. E i bullzoder israeliani spianano due strade a Jenin
Palestina La chiusura totale imposta dal 7 ottobre ferma la vita e il lavoro: "Non ci si muove per una combinazione di fattori: per i checkpoint, ma anche per le violenze dei coloni. Attaccano gli autobus con le pietre". 50, 60, 70 arresti ogni notte. E i bullzoder israeliani spianano due strade a Jenin
Ti fai accompagnare dal proprietario di un’auto con la targa gialla, israeliana. Percorri una bypass road, le vie di comunicazione che collegano Gerusalemme alle colonie in Cisgiordania. Raggiungi il checkpoint e attraversi. Scendi dall’auto e continui a piedi, fino all’entrata della comunità palestinese in Cisgiordania in cui sei diretta. Scavalchi i blocchi di cemento o le montagne di terra, destinazione raggiunta.
È la trafila che dal 7 ottobre i palestinesi devono seguire (quelli con il permesso di entrare in territorio israeliano) per muoversi tra Cisgiordania e Gerusalemme est.
LA CHIUSURA totale imposta dalle autorità israeliane ha congelato la vita da questa parte del muro di separazione. Muoversi è un azzardo. Lavorare anche. Lungo le bypass road le auto con targa verde (quelle dei Territori occupati) non sono più autorizzate a circolare.
Eppure sono snodi fondamentali: non collegano solo le colonie, ma conducono agli ingressi delle città e dei villaggi palestinesi. Quelle auto non sono autorizzate, ma anche se lo fossero non potrebbero percorrerle, cemento e montagne di terra sono invalicabili e a ogni incrocio stazionano 24 ore su 24 camionette dell’esercito israeliano. Ci sono anche soldati a piedi, con i mitra in braccio e postazioni volanti, tende nere per ripararsi dal sole.
Lo stop vale anche per i palestinesi residenti a Gerusalemme e fortunati possessori di una targa israeliana: non si passa. E così nei pressi dei blocchi le auto dei palestinesi si ammassano. Le lasciano parcheggiate là, poi si avviano a piedi fino al checkpoint in attesa di un passaggio per Gerusalemme. E vale per i bambini diretti a scuola nella Città Santa.
NON SONO POCHI: negli ultimi anni moltissimi palestinesi residenti a Gerusalemme hanno deciso di trasferirsi in Cisgiordania, comprare un pezzo di terra, costruirsi una casa abbastanza grande da ospitare tutta la famiglia.
Perché a Gerusalemme costruire per i palestinesi è una missione quasi impossibile, le autorità municipali non rilasciano permessi (chi lo fa, si vede mandare i bulldozer). Affittano appartamenti, piccolissimi perché i costi sono proibitivi.
E allora tanto vale spostarsi a qualche chilometro di distanza e vivere in modo più dignitoso. Una scelta che oggi, con la chiusura totale della Cisgiordania, ha intrappolato migliaia di persone.
In trappola come il resto, 2,5 milioni di palestinesi della Cisgiordania che da venti giorni vedono la loro vita quotidiana congelata. «Per le prime due settimane i checkpoint fissi tra le città palestinesi sono stati chiusi – ci spiega Mohammed, il nostro accompagnatore con targa gialla – Ora capita che li aprano per un’ora, a volte meno. Altrimenti tentiamo strade alternative, sperando non ci siano blocchi».
«CI INFORMIAMO tramite i canali Telegram, ormai è il social più usato perché non limita i contenuti», spiega Yasser scorrendo con il dito il telefono. Vive sopra il checkpoint di Mizmoria, a poca distanza dalla colonia di Har Homa.
Prima si chiamava Abu Ghneim, era una collina boscosa, il luogo preferito per le scampagnate del venerdì. «Su Telegram sai in tempo reale quali strade sono aperte, aggiornano all’istante quelli che riescono a passare».
«Una parte del nostro staff non riesce a venire a Betlemme, vivono in altre città – dice Lubna Shomali, coordinatrice dell’associazione palestinese per i rifugiati Badil – Non si muovono per una combinazione di fattori, per i checkpoint ma anche per le violenze dei coloni: molti autisti di servis sono stati attaccati con le pietre».
Tutto congelato. Anche il lavoro, ed è quello che preoccupa di più. Per questo, dice Lubna, «nell’ultima settimana le autorità israeliane hanno rilassato la chiusura, sanno che senza stipendi la tensione può esplodere».
Di sicuro chi non lavora sono le migliaia di palestinesi che avevano in mano un permesso di impiego in Israele, nei cantieri edili, nelle serre e nei campi: sospesi o cancellati fino a nuovo ordine.
In Cisgiordania non va molto meglio: le costruzioni sono ferme, le officine sono ferme, tanti negozi chiudono perché la gente non si muove e comunque ha pochi soldi da spendere. Qui si lavora spesso a giornata: se non lavori, non guadagni.
IL CLIMA è cambiato in poche ore, quelle tragiche del 7 ottobre e dell’attacco di Hamas. In Cisgiordania l’escalation è stata immediata, anche se invisibile all’esterno. Il giro di vite dell’esercito israeliano ha cadenza quotidiana, ogni mattina ci si sveglia con la notizia di 50, 60, 70 nuovi arrestati in raid notturni.
Ex prigionieri, palestinesi accusati di vicinanza ad Hamas o alla sinistra del Pflp, persone che hanno condiviso sui social network solidarietà a Gaza sotto bombe incessanti. «Hanno iniziato anche ad arrestate donne, giovani e meno giovani – aggiunge Lubna – Circa una decina».
Ad Aida succede praticamente ogni notte. È il campo profughi di Betlemme più vicino al muro, la barriera di cemento gli corre intorno insieme a sei torrette militari.
È anche il più vicino al Checkpoint 300, luogo privilegiato delle proteste e degli scontri con l’esercito. Che durante il giorno osserva dalle torrette e muove il braccio meccanico del fucile-robot «intelligente», apparso qualche mese fa lungo il perimetro del muro: un’arma automatica con telecamera che guarda al principale ingresso del campo di Aida, quello sormontato dalla grande chiave del ritorno e che ospita la sede del Lajee Center e uno dei magazzini dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati.
«Dal 7 ottobre solo ad Aida hanno arrestato 25 persone – ci dice Marwan, che qua è nato e cresciuto, sessant’anni fa – I soldati escono dal cancello di ferro che dà sulla Tomba di Rachele con i mezzi blindati».
IERI, venerdì, la protesta è partita come d’abitudine dopo la preghiera: lancio di sassi da una parte, lacrimogeni dall’altra. Anche proiettili israeliani, due giovani sono rimasti feriti dal fuoco vivo.
A Jenin poche ore prima gli uccisi nei raid notturni dell’esercito erano stati tre, membri del Jihad Islami. A Qalqiliya un civile palestinese è stato ucciso durante le proteste per la chiusura di un negozio: i soldati accusavano il proprietario di incitamento alla violenza. Sono già 110 le vittime tra Cisgiordania e Gerusalemme est dal 7 ottobre.
Nella città più settentrionale della Cisgiordania si sono rivissuti i giorni delle incursioni peggiori: nel campo profughi di Jenin l’esercito è entrato con blindati e bulldozer e ha letteralmente spianato due strade. Una era Martyr Abu Akleh Street, la via dove l’11 maggio 2022 i soldati uccisero la giornalista di al Jazeera Shireen Abu Akleh.
Hanno divelto il cemento e distrutto il memoriale che la ricordava, nato spontaneamente con foto e fiori e trasformato poi in un spazio del ricordo. Non c’è più, travolto insieme alle condutture dell’acqua. Ieri un pezzo del campo è rimasto all’asciutto.
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