Camminando per le strade di Lipsia, che si diramano dalle ampie piazze che costellano il centro della città tedesca orientale, è facile imbattersi in numerosi «passages» che collegano una via a un’altra, «tagliano» i percorsi lineari costituendo traiettorie interne di comunicazione urbana. All’interno di uno di questi «passages» si trova una delle sale, non casualmente chiamata Passage Kinos, di Dok Leipzig, il festival internazionale dedicato al cinema documentario e d’animazione la cui sessantaseiesima edizione ha avuto il suo cuore negli spazi del Museum der bildenden Künste (MdbK), museo dall’architettura moderna e luogo di ritrovo per chi è venuto a Lipsia alla ricerca di visioni in grado di fornire una panoramica stratificata su quanto il cinema del reale sta elaborando.

IL FESTIVAL – che ha proposto oltre alle sezioni competitive anche contenuti paralleli tra i quali la retrospettiva «Film and Protest – Popular Uprisings in the Cold War» con film compresi tra il 1953 e il 1991 – è stato vinto da While the Green Grass Grows di Peter Mettler (che ha anche ricevuto un omaggio con la proiezione di Picture of Light del 1994 e Gambling, Gods and LSD del 2002) che si è aggiudicato il «Golden Dove» per il miglior lungometraggio. Partendo dalla sua relazione con gli anziani genitori, il filmmaker canadese-svizzero ha costruito un diario personale che copre un periodo di vita, morte, incontri, viaggi, memorie che va dal 2015 al 2020. Didascalie di date e luoghi (tra Svizzera e Canada) scritte a mano, dialoghi intimi con la madre e il padre (che moriranno nel corso delle riprese) di commovente intensità, lunghe inquadrature e scene di natura, di cieli, di nuvole (che assumono valenza filosofica), flash di home movies, si alternano e sovrappongono in una narrazione in prima persona («Per me fare film è come una religione», dice a un certo punto Mettler), sicuramente pregna ma anche, nella durata di quasi tre ore, ripetitiva, soprattutto da quando entra in campo la pandemia creando una «frattura» nel dispositivo che si apre a una serie di manipolazioni digitali non convincenti.

“Beauty and the Lawyer”

«Silver Dove», ovvero secondo premio, a un’opera di tutt’altra fattura, Beauty and the Lawyer, esordio dell’armeno Hovhannes Ishkhanuyan che porta in primo piano la quotidianità delle persone Lgbtq+ in un Paese dove il novantatre per cento della popolazione è contro l’omosessualità e dove le politiche governative sono altamente repressive. Ishkhanuyan lo fa intrecciando due livelli. Nel primo, che rappresenta la linea principale del film, segue la vita di Carabina (artista teatrale e musicale gay, travestito, lavoratore del sesso) e di Hasmik (eterosessuale, avvocata, membro dell’associazione Pink Armenia per la protezione di chi è discriminato per via del genere). I due si sposano (lui scherzando le dice: «Amo una donna, sono diventata lesbica») e hanno un figlio. Come vivere e come crescerlo in un ambiente ostile? Lo sguardo filmico è prossimo, coinvolto, vicino a Carabina e Hasmik che diventano a tutti gli effetti dei personaggi. A fare da contrappunto c’è il secondo livello, vale a dire scene più documentarie di manifestazioni, proteste, del discorso in parlamento di una trans duramente attaccato da chi presiede l’aula e con lei che viene allontanata, degli strali dei fondamentalisti religiosi. Un film al tempo stesso intimista e politico per far conoscere una realtà fatta da una parte di pregiudizi e dall’altra di militanza e resistenza.

“Bye Bye Tiberias”

Dai Balcani arriva un’altra notevole opera prima, Flotacija, della serba Alesandra Tatic e dell’inglese Eluned Zoë Aiano ambientata a Majdanpek, villaggio minerario nell’Est della Serbia segnato dalle trasformazioni industriali e dove i cittadini si sentono abbandonati dallo Stato. Le due registe raccontano quel posto immergendosi in esso, ponendosi a stretto contatto con chi vi abita e con la natura che occupa un ruolo rilevante nella quotidianità di quelle persone. Anche perché il «magico» è una presenza concreta, la gente crede nell’esistenza di esseri soprannaturali invisibili che si nascondono nelle cavità degli alberi e uccidono persone e bestiame. Bisogna affrontarli con rituali antichi, secondo pratiche tramandate, ma che forse le nuove generazioni non sono più interessate a perpetrare. E poi ci sono le case, vecchie auto, dialoghi anche con umorismo tra alcune donne, la miniera – come il bosco – filmata nei suoi dettagli, sempre con una densità visiva che sfugge a qualsiasi superficialità per fare sentire ovunque la «materia», la fisicità sia di un ambiente complesso sia dei corpi, anziani o giovani, che interagiscono in profondità con quel territorio.

SI TORNA alla prima persona in Bye Bye Tiberias (oggi più che mai di estrema attualità), struggente dialogo tra una madre e una figlia palestinesi. La madre è una delle più celebri attrici mediorientali, Hiam Abbass, nata a Nazareth. La figlia, Lina Soualem, è la regista del film, nata a Parigi. Tra l’oggi in un appartamento parigino (dove foto di famiglia vengono distese su un tavolo e incollate su una parete) e nella casa d’origine in Palestina e il passato ri-affiorante inoltre da flagranti home movies (anche con immagini di Abbass giovane, sorridente o triste, bellissima), il film ripercorre tanto una storia personale quanto quella di un popolo, dall’esilio del 1948, e di un luogo, con il lago di Tiberiade ieri e oggi. Vi andavano madre e figlia e ci tornano, e osservano i confini di Siria, Libano, Palestina, Giordania. «Quelle immagini sono il tesoro della mia memoria – afferma la figlia – che rischiano di scomparire» e che per questo è fondamentale preservare.