Crisi, spread, governo tecnico, privatizzazioni, sacrifici, tutto per colpa di un debito monstre. Ci risiamo? Cambia il governo, ma non le politiche economiche e la loro giustificazione? Nell’aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (in genere ottimistico) si dice che «alla luce della modesta crescita dell’attività economica prefigurata dalle stime interne per il secondo semestre» il Pil nel 2023 aumenterà solo dello 0,8%, anziché del 1%, e nel 2024 dell’1%, contro una previsione del 1,5%.

Una differenza di due e cinque punti decimali è sufficiente a giustificare il nuovo clima emergenziale? Il governo oscilla dall’entusiasmo di qualche mese fa per una crescita che ci piazzava ai “primi posti in Europa” alle preoccupazioni attuali che prefigurano una possibile crisi della finanza pubblica. Nei prossimi due anni l’Esecutivo ci dice che il rapporto debito/Pil resterà praticamente invariato, per poi iniziare una discesa a partire dal 2026.

L’obiettivo resta quello di riportarlo al dato pre-pandemia entro la fine del decennio. Praticamente dal 2026 al 2030 dovrebbe scendere di una decina di punti. Nel 2026, primo anno della discesa, e ultimo anno in cui si avanza una previsione sul Pil, la crescita attesa resta piuttosto modesta (1,2%), prefigurando un percorso lento in cui si scommette, come spesso accade, su un futuro il più lontano possibile. In termini di volumi poi è sufficiente pensare che una riduzione del debito dell’entità auspicata si era ottenuta per entrare nell’euro tra il 1996 e il 2000 a fronte di grandi tagli e un piano aggressivo di privatizzazioni.

Va detto che dal 2020 al 2022 c’è stata una sforbiciata di ben 10 punti, dovuta al poderoso rimbalzo post-covid e al ritorno di un’inflazione importante, che ha aumentato il Pil nominale riducendone il rapporto con i debiti accumulati.

Ora la crescita dei prezzi sta rallentando, dimezzandosi dai picchi dello scorso anno. La tassa occulta dell’inflazione continuerà a svolgere un ruolo, ma il suo effetto sarà meno marcato, anche perché nel frattempo crescono i tassi d’interesse spinti dall’attesa inflazionistica dei compratori e dal deciso rialzo dei tassi operato dalle banche centrali. Il costo del debito assieme a spese per bonus e politiche dei redditi che in definitiva alleggeriscono i conti delle imprese, contribuiranno a tenere alto il deficit, previsto al 5,4 nel 2023 e al 4,3% nel 2024. Le politiche monetarie restrittive in vigore, che dovrebbero contrastare l’inflazione, hanno un effetto deprimente su investimenti e domanda.

Alcuni studi considerano duratura tale dinamica. Insomma tutto sembra concorrere a far tornare pesante il macigno debito. Ultimamente si sono aggiunti anche alcuni interventi a livello internazionale che farebbero temere un declassamento dei titoli italiani.

Pressioni e rischi che sembrano voler essere fronteggiati con le solite famigerate (contro-)riforme strutturali e riduzioni di spesa (vedasi quella sanitaria). A cui si aggiunge un ritorno dell’ambizione a privatizzare un patrimonio pubblico sempre più depauperato in un momento dove molto dubbia appare anche la domanda del mercato, con il rischio di indebolire ulteriormente il paese di fronte ai grandi attori economico-finanziari internazionali (dall’industria ai trasporti, per fare solo degli esempi concreti). La sensazione è quella di avere delle classi dirigenti che con disinvoltura passano da ingiustificati entusiasmi al panico, dove non esistono altre ricette che quelle fallimentari già perseguite in passato. Una prospettiva dove a pagare il conto sono sempre le classi popolari e il lavoro dipendente.

Se il debito è un problema, e in una certa misura lo è, sebbene sempre più condiviso al livello internazionale, ci sarebbe da fare innanzitutto i conti con un sistema e con le politiche che lo hanno fatto costantemente crescere. Magari iniziando a individuare i principali beneficiari di tale meccanismo e facendo pagare il conto proprio a loro.