In un anno segnato, in tutta l’America latina, da una lunga serie di conflitti socio-ambientali, la resistenza contro l’estrattivismo è cresciuta di pari passo con il processo di appropriazione dei beni comuni. E a fare la differenza è stato davvero il «pueblo unido», quello non solo evocato nelle piazze, ma concretamente e fisicamente presente nella lotta.

È quanto avvenuto, per esempio, con la storica vittoria della popolazione della provincia di Chubut, nella Patagonia argentina, contro lo sfruttamento minerario, la cui eco si è diffusa in tutta la regione proprio in apertura del 2022. Una lotta che, al grido di «No è no», era andata avanti instancabilmente per 18 anni, da quando, nel 2003, in una storica consultazione popolare nella città di Esquel, più dell’80% degli elettori aveva votato contro lo sfruttamento di un giacimento d’oro da parte della impresa canadese Meridian Gold. Ed è stato proprio grazie all’oceanica, corale e permanente mobilitazione degli abitanti, in grado di respingere negli anni un’offensiva mineraria dopo l’altra, che alla fine il governo provinciale guidato da Mariano Arcioni ha dovuto capitolare, ritirando il provvedimento che autorizzava l’attività mineraria nei dipartimenti di Gastre e Telsen, dove si trova il secondo giacimento di argento e piombo più grande del pianeta, il Proyecto Navidad della Pan American Silver Corp.

Il rifiuto incrollabile di un’intera popolazione sembra, dunque, aver fatto centro, se, ancora tre settimane fa, Arcioni ha ammessso che la questione dell’attività mineraria a Chubut è «definitivamente chiusa».

Ma in Argentina, in un anno dominato dal saccheggio finanziario, economico ed estrattivista perpetuato e incrementato dall’accordo con il Fmi sulla ristrutturazione del debito, quella di Chubut non è stata l’unica vittoria. Dopo trent’anni di lotta da parte della comunità locale, è stata infatti approvata a luglio la legge per la creazione dell’Area Naturale Protetta della Península Mitre, nell’estremo sud-est della Terra del fuoco, considerata il più importante serbatoio di carbonio dell’intero paese: 500mila ettari di terra e mare che ospitano l’84% delle torbiere argentine, in grado di immagazzinare 315 milioni di tonnellate di carbonio, e oltre il 30% delle foreste di alghe dell’Argentina, uno degli ecosistemi più incontaminati del pianeta.
Se spesso i risultati si ottengono solo dopo battaglie di anni, se non di decenni, arrendersi non è un’opzione. Lo sa bene la piccola comunità indigena di Sinangoe, nell’Amazzonia ecuadoriana, la cui lotta contro lo sfruttamento minerario ha indotto la giustizia a cancellare, nel 2018, 52 autorizzazioni illegali per l’estrazione di oro concesse dall’ex presidente Lenín Moreno e poi, a febbraio di quest’anno, a garantire il riconoscimento del diritto alla consultazione previa, libera e informata di tutti i popoli indigeni del paese. E «non solo – recita la storica sentenza della Corte Suprema – per quei progetti che si trovino nelle terre delle comunità indigene, ma anche per quelli che, benché fuori dalle loro aree, possano danneggiarle in maniera diretta dal punto di vista ambientale o culturale».

Una lotta, quella della comunità, che è servita a frenare le politiche estrattiviste del governo Lasso e che è valsa il conferimento del Premio Goldman 2022, una sorta di Nobel per l’Ambiente, a due giovani leader del popolo indigeno A’i kofan di Sinangoe: Alex Lucitante, portavoce del sapere ancestrale dei taitas (sciamani), e Alexandra Narváez, la prima donna a essersi unita alla Guardia indigena di Sinangoe, incaricata di vigilare il territorio per monitorare e frenare qualsiasi attività illegale.

Ma anche laddove la lotta non è ancora finita, la resistenza delle comunità contadine e indigene, delle organizzazioni di donne, delle associazioni ambientaliste è riuscita comunque a ostacolare, a rallentare e in qualche caso anche a paralizzare l’avanzata delle imprese estrattiviste.

E ovunque la resistenza si sposa con la costruzione di alternative dal basso, che siano progetti di agroecologia, pratiche agroforestali, forme di turismo comunitario o originarie esperienze di autogoverno. Pratiche spesso riconducibili al paradigma del buen vivir nelle sue diverse espressioni (dal sumak kawsay quechua al suma qamaña aymara, dal küme mongen mapuche al vivir sabroso afrocolombiano), ma tutte unificate dal forte senso di comunità e da un equilibrio armonico con la natura, «che non ci appartiene ma a cui apparteniamo».