Qualunque sarà l’esito delle elezioni presidenziali del 28 luglio, è improbabile che per il Venezuela possa aprirsi un periodo di pace. Se infatti il presidente Maduro, al potere già da 11 anni, venisse riconfermato alla guida del paese, una parte significativa della popolazione non riconoscerebbe la sua vittoria e se, al contrario, riuscisse a imporsi il candidato dell’opposizione Edmundo González Urrutia, quel poco che è sopravvissuto della rivoluzione chavista verrebbe spazzato via con esisti imprevedibili.

Riguardo alle intenzioni di voto, i sondaggi non sono di nessun aiuto: alcuni istituti demoscopici assegnano a Maduro un numero di preferenze che oscilla tra il 54 e il 70%, mentre altri danno per sicuro vincitore González con più del 50% dei voti e addirittura con il 59,6% contro il 14,6 dell’attuale presidente. Uno scarto inverosimile, considerando da una parte lo zoccolo duro su cui può ancora contare il “madurismo” (valutato intorno al 30%), e dall’altra lo scontento sociale a cui può attingere l’opposizione.

Maggiore consenso si registra intorno al dato dell’affluenza alle urne, che per tutti sarà alto, oltre il 60% e fino all’80%, malgrado i non pochi richiami all’astensione da parte di quell’elettorato alla sinistra del Psuv (il Partito socialista unito del Venezuela) che accusa Maduro di aver abbandonato la strada tracciata da Chávez e che denuncia un “apartheid elettorale” nei confronti dei propri rappresentanti, nessuno dei quali è riuscito a iscrivere la propria candidatura.

Assai tormentata, in realtà, è stata pure la ricerca del candidato da parte della destra: a fronte dell’ineleggibilità della golpista María Corina Machado, la cosiddetta Piattaforma unitaria democratica (Pud) aveva ripiegato sull’ottantenne filosofa e docente universitaria Corina Yoris, senza riuscire tuttavia a iscriverla nel sistema on-line del Consiglio nazionale elettorale (Cne). A quel punto la scelta era necessariamente caduta sull’unico tra i candidati ammessi dal Cne che poteva incontrare il favore delle diverse anime della Pud: il praticamente sconosciuto ex ambasciatore Edmundo González Urrutia. Un ripiego del ripiego, ma sostenuto con vigore dalla popolare Machado.

Tra Maduro da una parte e Machado-González dall’altra (con la decina di candidati dell’opposizione moderata a fare da spettatori) sono volate, come c’era da attendersi, accuse di ogni tipo. A partire da quella, rivolta dal presidente all’opposizione – già protagonista delle violente “guarimbas” del 2014 e del 2017 – di voler scatenare una nuova ondata di violenza, persino «un bagno di sangue», oltre che di cercare di assassinarlo.

E se quest’ultima è un’accusa talmente ricorrente da non fare più notizia, una conferma delle mire golpiste della destra è venuta, a sorpresa, da un gruppo paramilitare attivo nel nord della Colombia, le Autodefensas Conquistadoras de la Sierra Nevada, le quali hanno riferito di essere state contattate da settori dell’estrema destra venezuelana per destabilizzare il paese, sollecitando un dialogo diretto con le autorità colombiane e venezuelane per informarle della situazione.

Una denuncia, questa, che si è aggiunta a quella di Maduro riguardo a presunti piani dell’opposizione diretti a introdurre nel paese un migliaio di paramilitari dalla Colombia allo scopo di generare il caos alla vigilia delle elezioni. E alle rivelazioni dell’ex capo paramilitare colombiano, oggi “gestore di pace”, Salvatore Mancuso, che a metà marzo, in un’intervista a Rtvc (il sistema radiotelevisivo pubblico colombiano), aveva affermato, senza fornire dettagli, che gli era stato chiesto di partecipare a un colpo di stato in Venezuela e all’assassinio dell’allora presidente Hugo Chávez.

Non mancano neppure le accuse di sabotaggio, come quello che, secondo il governo, starebbe dietro l’esplosione nel gasdotto situato lungo la vecchia autostrada Cantaura-Anaco, ad Anzoátegui, allo scopo – come ha riferito il ministro del petrolio Rafael Tellechea – di «generare scenari di violenza e sabotare gli sforzi messi in campo per raggiungere le conquiste della classe operaia petrolifera».

Ma anche dall’altro versante non si scherza. Giovedì, su X, Machado ha denunciato un tentativo di attentato contro di lei e i suoi accompagnatori da parte di «agenti del regime» che, al termine di un comizio elettorale a Portuguesa, li avrebbero seguiti fino al luogo scelto per il pernottamento, a Barquisimeto, per poi vandalizzare e manomettere i freni delle loro auto. E ancor prima aveva lanciato l’allarme sull’«escalation repressiva» di cui sarebbero vittime i suoi collaboratori, denunciando l’arresto del suo responsabile della sicurezza, Milciades Ávila, poi rilasciato, e il sequestro «degli altri 24 membri della nostra squadra che sono ora prigionieri della tirannia».