«Pressione indescrivibile». Tsai Ing-wen, in visita alla base navale di Suao, ha definito così l’azione di Pechino su Taiwan.
Anche ieri 8 jet hanno oltrepassato la «linea mediana».

Una nave è passata vicino a Green Island, al largo della costa orientale, dove si sono svolti test missilistici. Secondo i media locali, i missili sarebbero ricaduti in acqua senza raggiungere l’altezza stabilita.

Pechino ha nominato Wang Zhongcai nuovo comandante del Comando del Teatro orientale della Marina. Scelta significativa: è il capo della guardia costiera che ha guidato le incursioni intorno alle Senkaku/Diaoyu, isole contese col Giappone.

Ulteriori segnali che sempre più navi cinesi anche non militari circonderanno Taiwan. Abbiamo intervistato Chieh Chung, esperto di aspetti militari della National Policy Foundation di Taipei (think tank vicino al Guomindang) sulle strategie delle due sponde dello Stretto.

Lo status quo è cambiato?

Da sempre la Repubblica popolare cinese si prepara a una potenziale invasione della Repubblica di Cina (il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto, ndr). Quanto accaduto in queste settimane ha cancellato un tacito accordo che era stato applicato, salvo rari episodi, sin dal 1999: il rispetto della linea mediana. Funzionava come «confine» garantendo una zona cuscinetto. Ma il tacito accordo è stato rotto e si entra in una nuova fase dello status quo.

L’esercito popolare di liberazione ha chiarito che le manovre oltre la linea mediana diventeranno regolari. Come reagirà l’esercito taiwanese?

In quelle acque si svolgono manovre di routine ed esercitazioni, non si può cederle. Si rischia che mezzi navali e aerei di entrambe le parti si trovino gli uni di fronte agli altri sempre più spesso, aumentando il rischio di incidenti. Il nostro esercito cercherà di evitarli: non aprendo il fuoco dovrà cercare di far cambiare rotta ai mezzi di Pechino.

Le esercitazioni erano una dimostrazione di forza o una prova generale?

Non erano solo uno show, fanno parte del piano di potenziale invasione. In questo caso era chiaro che non ci sarebbe stata perché non c’è stato assembramento di truppe e beni di prima necessità sulle coste. Lo scopo era dire agli Usa di smettere di rafforzare le comunicazioni con Taipei.

Una reazione così dura non rischia di mettere in allerta altri paesi asiatici?

A Pechino non dispiace alzare la pressione perché questo, nella sua ottica, le crea maggiori opportunità di negoziazione. È stata usata questa diplomazia coercitiva già nel 2012 sulle Diaoyutai (a Taipei si chiamano così le Senkaku/Diaoyu, ndr) forzando gli Usa a chiedere al Giappone di fare un passo indietro, ora si ripete la strategia su Taiwan.

Senza la visita di Nancy Pelosi ci sarebbero state comunque le esercitazioni?

Non definirei la visita una scusa, ma un innesco. Di certo era un piano già pronto per essere utilizzato in una situazione come questa. Pechino è insoddisfatta e insicura da tempo per l’aumento degli scambi tra Usa e Repubblica di Cina, facilitati dall’eliminazione delle restrizioni autoimposte operata da Pompeo.

Non è scattata l’allerta sui missili che hanno sorvolato l’isola.

Il governo aveva il dovere di comunicare quanto accaduto e spiegare il mancato allarme. Se la notizia dei missili fosse arrivata da Pechino e non da Tokyo l’effetto sarebbe stato peggiore.

Pechino è pronta a un’invasione o la vede comunque come unica opzione per la «riunificazione»?

Non ancora. Se ci sarà invasione dovrà essere il più veloce possibile. Nella prima fase vanno trasportate almeno 60mila truppe ma per ora ne possono portare solo la metà. Prima di Trump, Pechino era convinta che il tempo fosse dalla sua parte. Ora ci sono troppe variabili ed è ansiosa. Ma nel breve termine non si rischia un’invasione.

Sono ipotizzabili un blocco navale o un’azione su un’isola minore?

Forse quando Pechino pensava che Taipei si sarebbe seduta al tavolo negoziale. Ora non credo. Prendere Kinmen e Matsu non servirebbe a prendere l’isola principale. E perché il blocco sia efficace dovrebbe durare almeno tre settimane, dando così tempo di reagire a Taiwan e Usa. Se ci sarà azione militare, l’invasione su larga scala è l’opzione più logica.

C’è fiducia su un intervento Usa in caso di guerra?

Nella terza crisi del 1996 c’è stato, anche perché si temeva un’invasione di Kinmen e Matsu. Stavolta non c’erano questi segnali, anche se la Ronald Reagan era in posizione strategica. Ritengo inoltre che nella loro telefonata Xi Jinping e Biden si siano scambiati opinioni su come gestire la situazione e abbassare i rischi.

Cosa dovrebbe fare Taiwan per rafforzare le sue difese?

È fondamentale rivedere le linee guida per far fronte all’ampliamento dell’area grigia. Oltre la linea mediana non arriveranno solo navi da guerra ma anche guardia costiera e milizia marittima: i protocolli di risposta vanno adeguati. Le difficoltà saranno sempre maggiori. Serve poi estendere la leva militare e il programma dei riservisti ma mancano basi d’addestramento.

Una delegazione del Gmd è in Cina continentale. Può convincere Pechino a riavviare il dialogo politico?

Non credo che ora Pechino si affidi ad alcuna forza politica della Repubblica di Cina. Certo non vorrebbe che nel 2024 vincesse ancora il Dpp, per giunta con un candidato più radicale. Da lì al 2027, con XXI Congresso e possibili cambi nel Partito comunista, sarà una fase molto delicata.