Chiamiamoli eventi possibili, non «estremi»
Anche se l’acqua si ritira rapidamente, le ferite inferte da un’alluvione ad un territorio richiedono molto tempo per rimarginarsi; in particolare quelle subite dalla popolazione, sia nelle sue componenti materiali ed economiche, sia nel cuore stesso della gente. L’alluvione del Polesine, del 1951 e quella di Firenze, del 1966, sono ancora presenti, non solo nella mente di chi le ha vissute, ma anche nel comune sentire di quelle popolazioni.
Si potrebbe dire che sono i governi, teoricamente espressione del popolo, che dimenticano rapidamente; ma se si continuano a costruire case negli alvei fluviali o in zone depresse nelle pianure alluvionali e i cittadini le comprano, è segno che la cultura generale in materia ambientale non ha fatto tesoro delle esperienze passate.
Sembra comunque che il tempo per dimenticare non ci sia più concesso, ed eventi chiamati ‘estremi’ si ripresenteranno con sempre maggiore frequenza. Definirli estremi non è altro che un alibi per giustificare il fatto che non abbiamo fatto niente, o molto poco, per prevenirli o per mitigarne gli effetti: quegli eventi devono essere definiti ‘possibili’, anche se con basse probabilità di accadimento.
E se un evento può arrecarci un grave danno, anche se è poco probabile che si verifichi proprio domani, non dobbiamo sottovalutarlo: chi prenderebbe un aereo sapendo che vi è ‘solo’ una probabilità su cento che possa cadere? Però finiamo col basare le nostre scelte sugli scenari più probabili e non su quelli più catastrofici.
«Ma la Terra è un pianeta abitabile?», ci chiedevamo nella rubrica Attenti ai dinosauri due anni fa, in seguito ad una serie di eventi ‘possibili’, fra cui l’uragano di Pantelleria. Ricordavamo che le pianure alluvionali costituiscono certamente siti ottimali per l’insediamento, facilità di trasporto, possibilità di coltivare, disponibilità di acqua. Ma ci sarà una ragione per la quale si chiamano «alluvionali»?
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Adesso è ora di dire basta con l’emergenzaPer impedire l’esondazione dei fiumi, che depositando i sedimenti nel proprio letto lo innalzano in continuazione, abbiamo costruito degli argini che hanno portato il corso d’acqua a scorrere più in alto della propria pianura, mettendo così in grave pericolo tutti quelli che vivono ad un livello più basso.
La rottura degli argini del Po nel 1951, che procurò un centinaio di vittime e oltre 180.000 senzatetto, non è stata sufficiente a farci capire che la sicurezza non si ottiene incanalando l’acqua verso il mare, che fra l’altro si sta innalzando, ma portando le popolazioni a vivere in zone rialzate. Se questo non è possibile per le aree urbane, si dovranno prevedere estese superfici, assai più grandi delle attuali casse di espansione, da mandare sott’acqua per salvare le città, come hanno fatto in Olanda. Per chi ci viveva si fanno nuove case in aree sicure, mentre per chi deve restare, queste si pongono su collinette artificiali che, all’occasione, diventano isole.
Si dice che il territorio italiano sia estremamente fragile, e anche questo termine andrebbe rivisto: è un territorio in naturale evoluzione morfologica, forse più rapida di altri. Siamo noi che siamo fragili, perché spesso ci siamo insediati proprio in quelle aree dove più rapida è questa evoluzione, come i versanti di rilievi costituiti da rocce erodibili, lungo i fiumi che naturalmente cercano di cambiare il proprio corso, e sulle coste, da sempre l’elemento più dinamico del territorio e ora colpite anche dall’innalzamento del livello del mare.
Aiutati o meno da leggi compiacenti alcuni settori economici, ma anche nella ricerca del consenso di cittadini non sufficientemente consapevoli dei rischi a cui andavano incontro, abbiamo disboscato le montagne, tagliato i versanti con strade senza tener conto dell’assetto geologico, strizzato i fiumi con argini, case, fabbriche e ponti, demolito le dune costiere per costruire villaggi turistici e passeggiate a mare. Ed anche nelle zone agricole, che ci illudiamo conservino ancora un minimo di naturalità, abbiamo fatto il possibile per aumentare il rischio idraulico.
Ci ricorda Pancho Pardi, in un volumetto sul Paesaggio di prossima uscita con Manfestolibri, che ‘i vigneti, in origine disposti a girapoggio lungo le curve di livello ora fuggono paralleli dall’alto al basso secondo il moderno rittochino, molto più comodo per i trattori, ma formidabile dissipatore di suolo’ e, aggiungiamo noi, di acqua. E quando da lontano si vedono quei paesaggi che ricordano le basi lunari dei film di fantascienza, con chilometri e chilometri di serre con tetti di plastica che impermeabilizzano il suolo, non meno degli edifici e delle strade della città, non pensiamo a che fine farà l’acqua del prossimo temporale?
Questi eventi ‘possibili’, con il riscaldamento climatico stanno diventando sempre più intensi e ricorrenti, e la ‘nuova normalità’ alla quale dobbiamo abituarci, non è tanto quella post-COVID, di cui molto si è parlato, quanto quella che ci attende nei prossimi anni per il riscaldamento globale, della quale troppo poco si parla.
*Docente di Dinamica e difesa dei litorali all’Università di Firenze, membro della task force “Natura e Lavoro”
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