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Charitonov, totalità minate da microscopiche irrisioni alla logica

Charitonov, totalità minate da microscopiche irrisioni alla logicaAleksej Titarenko da «City of shadows», 1991-1994

Scrittori russi Sulle tracce di un autore misterioso, il ricercatore al centro di «Linee del destino» sprofonda in un vortice metaletterario: romanzo del 1985 di Mark Charitonov, ebreo russo nato in Ucraina, dal Saggiatore

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 luglio 2022

Difficile lavorare su carte d’archivio senza sperimentare, almeno una volta, la tentazione di colmare con la fantasia gli spazi lasciati vuoti dai documenti. Di fronte alla prospettiva frustrante di un quadro destinato a restare incompleto chiunque vorrebbe poter aggiungere con un atto d’imperio le tessere mancanti del puzzle. Se poi a scervellarsi su queste lacune è un sognatore con velleità letterarie inespresse è probabile che non lesinerà sforzi pur di ricostruire a colpi di ipotesi una visione d’insieme coerente che lo soddisfi. Anche se in realtà non c’è alcuna certezza sull’esistenza effettiva di quella totalità in cui ogni frammento dovrebbe, come per magia, incastrarsi.

Riscoperta inattesa
I labili confini fra memoria, storia e invenzione sono al centro di Linee del destino, romanzo ultimato da Mark Charitonov nel 1985, pubblicato nel 1991 e soltanto ora proposto dal Saggiatore nella fluida traduzione di Margherita Crepax e Emanuela Guercetti (pp. 508, € 24,00). Riscoperta inattesa che immerge il lettore in una scrittura piacevolmente d’antan, contrassegnata da una raffinatezza stilistica che spicca sullo sfondo certo non esaltante della produzione russa odierna.

Protagonista di questo testo sorprendente è Anton Lizavin, timido e incolore ricercatore di provincia che per la sua tesi di dottorato ha scelto Simeon Milaševic, un autore dimenticato d’inizio secolo assai poco «dissertabile», come si direbbe in gergo accademico. Non solo la sua biografia pare sprovvista di qualsiasi contributo alla causa rivoluzionaria, ma anche i materiali che dovrebbero servire a far luce su di lui sono spariti nei roghi che hanno distrutto gli archivi locali di Stolbenec e Nechaevsk. Finché, del tutto inaspettatamente, Anton non ritrova tra i documenti scartati e destinati al macero della biblioteca regionale un bauletto contenente carte attribuibili a Milaševic – per la precisione un’intera collezione di involucri di caramelle della fabbrica appartenuta a un certo Angel Nikoevic Ganšin, imprenditore socialista che aveva ospitato lo scrittore poco prima della Rivoluzione d’Ottobre.

Per sdebitarsi verso Ganšin, Milaševic aveva composto slogan pubblicitari per i suoi confetti (miracolosi anche nella cura dei postumi alcolici, secondo la vox populi); ciò che gli studiosi però ancora ignoravano, prima del ritrovamento fortunoso di Anton, era che lo scrittore fosse solito annotare frasi slegate sul retro dei fantiki – così in russo si chiamano le carte di caramella. Quell’ammasso di laconici frammenti suscitano da subito la curiosità del protagonista: «Le parole a un tratto lo punsero, come se fossero rivolte a lui». A stimolare la sua immaginazione non è soltanto lo status incerto dei testi giunti per caso in suo possesso – abbozzi di intrecci mai sviluppati? brani di un romanzo andato perso? – ma anche e soprattutto una incredibile coincidenza: un bauletto identico a quello che contiene i fantiki compare infatti – per sparire poi immediatamente, in circostanze poco chiare – nel racconto relativamente più famoso di Milaševic, il cui titolo, guarda caso, è Rivelazione. Quale epifania nasconde, dunque, il ritrovamento delle romanzesche caramelle?

Di colpo Anton si lascia risucchiare da un vortice meta-letterario che metterà a dura prova la sua stabilità mentale, in un rincorrersi di eventi che si snodano fra la indecifrabile bohème artistica di Mosca e lo squallore fin troppo noto della provincia. Identificandosi sempre più con il suo oggetto di studio, il giovane mette instancabilmente a confronto i fantiki, convinto che l’andamento del lavoro su quei «trucioli metallici senza una calamita» sia legato da qualche provvidenziale nesso con le circostanze della sua vita personale: «A volte si chinava su quei foglietti sparsi come su un solitario dove il mazzo di carte era infinito, e le carte avevano semi sconosciuti». Simile a un archeologo, Anton li rilegge e riordina senza posa, nella speranza che prima poi quei cocci si dispongano in un insieme sensato, dando forma al tanto sospirato vaso perduto. Tuttavia, non solo il bauletto dei fantiki, ma anche il mondo che lo circonda, l’universo caotico del tardo socialismo, costituisce una totalità esplosa che irride qualsiasi aspirazione alla logica.

Ossessioni degli eroi letterari
Traduttore di Kafka, Canetti, Zweig e Thomas Mann, Charitonov in questo romanzo che lo impose all’attenzione del pubblico non solo russo all’inizio degli anni Novanta sembra debitore soprattutto nei confronti del primo: Anton è l’ultimo di una lunga trafila di eroi letterari «condannati» a scontare fino in fondo le proprie ossessioni. Tuttavia, nelle descrizioni straordinariamente pittoriche e al contempo profondamente illusionistiche di questo scrittore d’origine ebraica nato a Žytomyr, in Ucraina, nel 1937, si avverte anche l’influenza di Nikolaj Gogol’. Egualmente gogoliano è il tema del sosia e dello sdoppiamento che Charitonov contamina qui con un dubbio metodico nei confronti delle narrazioni totalizzanti, nonché con un’ironia prettamente ebraica. Come scriveva infatti in un saggio del 1994: «Ogni ebreo credente non può fare a meno di pensare che esista un determinato progetto ‘speciale’ riguardante il suo popolo. Ma quale? Se qualcuno vorrà espormelo, lo ascolterò con interesse e poi, da bravo ebreo, scuoterò dubbioso la testa».

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