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C’era una volta l’America

C’era una volta l’AmericaUsa, manifestazione degli immigrati davanti alla Casa Bianca – LaPresse

Stati uniti La storia delle presidenziali di fine anno con due protagonisti Donald Trump e Hillary Clinton, potrebbe rivelarsi più complicata e dall’esito aperto. E lo scenario sgradevole della corsa alla Casa bianca è lo specchio di un Paese politicamente confuso ormai potenza tra le altre potenze. Anche senza Obama

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 gennaio 2016

Con la minaccia – lanciata con un tweet condito di allusioni mafiose – di ritirar fuori lo scandalo Lewinsky e di scagliarlo contro Hillary Clinton, la furia misogina di Donald Trump promette nuovi colpi di scena nel duello che ormai domina la corsa verso le presidenziali del novembre 2016. Il magnate dell’industria immobiliare e alberghiera trova sempre più in Hillary Clinton il bersaglio più congeniale per incrementare il bottino di preferenze nei sondaggi che già lo distanziano abbondantemente dal folto drappello degli altri aspiranti alla nomination presidenziale repubblicana.

Hillary ha in Trump l’avversario ideale per fare appello al riluttante elettorato democratico progressista, specie ai settori che non l’hanno mai amata e che, senza tanti giri di parole, la considerano un’esponente dell’establishment e delle élite, amica di Wall Street e, in politica internazionale, un “falco”. Insomma, una candidata da non votare. Ma di fronte alla prospettiva di un fascista, razzista e misogino alla Casa Bianca, come non sostenere la candidatura di Hillary? È l’argine alla barbarie. Specie le donne, come potrebbero tirarsi indietro? E le elettrici sono una componente essenziale del blocco di voti democratico, non sempre in sintonia con Clinton. Nello scontro con Obama, quel blocco si divise e privò di voti essenziali Hillary, nel 2008.

Quindi i due “front runner” del Partito repubblicano e del Partito democratico hanno un indicibile interesse politico affinché la battaglia per la successione a Barack Obama si riassuma in un duello dai connotati forti ed espliciti tra loro due, tra due visioni del mondo nettamente diverse, tra due opzioni del dopo-Obama che più distanti non si può immaginare. Entrambi, nell’attacco frontale reciproco e nell’estrema polarizzazione, definiscono il proprio profilo, concentrando su di sé l’attenzione mediatica e spiazzando, specie Trump, rivali non altrettanto netti e decisi.

Un simile scenario in bianco e in nero, un duello appunto, e non le storie parallele di due elezioni primarie tra diversi contendenti, sembra la sceneggiatura di un romanzo di fantapoliticaTanto che qualcuno, specie nelle file repubblicane, si è azzardato a ipotizzare l’assurdo retroscena di un accordo tra Hillary e «the Donald», con Trump impegnato con il suo temperamento e le sue sortite a fare piazza pulita in campo repubblicano a tutto vantaggio della candidata democratica, un «patto» peraltro plausibile alla luce di un passato che in qualche modo li lega, di amicizia perfino e, da parte di Trump, di sostegno finanziario alle precedenti campagne di Clinton.

In effetti, nessuno, solo un anno fa, avrebbe potuto prevedere che la contesa per la successione a Obama si sarebbe ridotta a una sfida a due, prima ancora che iniziassero le primarie vere e proprie. Il cosiddetto commentariat si cullava nelle sue certezze, basate sulle lezioni del passato. Queste del 2016 – si sosteneva – sono elezioni in cui non compete un presidente in carica, un «incumbent», per la rielezione, né un suo vice. Sarebbe stata dunque – era la previsione – una competizione aperta, con più protagonisti, nella quale sarebbe stato importante il complesso processo della selezione attraverso le primarie, così come sarebbero stati cruciali le campagne elettorali di ciascun contendente, con i relativi schieramenti di sostegno. Certo, la forza di Hillary, in termini di appoggi finanziari e di reti di solidarietà, la rendeva, prima ancora che sciogliesse le sue riserve, la candidata unica del Partito democratico, lasciando immaginare che la competizione democratica si sarebbe ridotta a una messa in scena.

Ma non in casa repubblicana, dove le primarie sarebbero state reali.

Vediamo che il 2015 si conclude con un quadro che, come si è osservato, contraddice clamorosamente quanto previsto. Ma adesso che inizia l’anno cruciale, il 2016, con l’avvio delle primarie – non più sondaggi ma numeri reali – ai primi di febbraio in Iowa e in New Hampshire, il film che vedremo nei prossimi mesi non sarà necessariamente un ok Corral tra due personaggi così nettamente definiti e contrapposti.

La forza mediatica che alimenta una sfida così dura e personale non deve infatti distrarre dalla considerazione di diversi altri fattori in campo, alcuni già visibili, altri in prospettiva. È vero che gli insulti a sfondo sessista di Trump suscitano un moto di solidarietà per Hillary, come al tempo stesso alimentano le simpatie verso il miliardario nel campo della destra (ma non tutta la destra, come vedremo). Clinton, i consensi se li deve anche guadagnare, specie nei settori elettorali che possono essere decisivi in alcuni di stati chiave da cui dipende l’esito delle presidenziali. Perfino nei settori dove in teoria non dovrebbe avere problemi.

Il voto della comunità nera

Si pensi solo al voto degli africani americani. Per quanto minoritaria, la comunità nera costituisce un blocco elettorale rilevante in Michigan, Florida, Maryland, Nevada, Ohio, Pennsylvania e Virginia. In questi sette stati, Obama ottenne la vittoria nel 2012 grazie al margine decisivo di vantaggio costituito dal voto nero. Ci fu allora un’affluenza di africani americani alle urne relativamente considerevole per una comunità che non ha un’alta partecipazione al voto (e in molte situazioni le è di fatto impedito di partecipare al voto). In un’opinione sul New York Times, Donovan X. Ramsey, un giovane attivista nero, ricorda a Hillary che, diversamente dalle vecchie generazioni, le nuove non danno per scontato il loro voto a un candidato presidenziale democratico. Il loro consenso, se lo dovrà sudare. Di fronte ai ripetuti episodi di razzismo e alla catena di omicidi da parte di poliziotti bianchi, Hillary ha sempre reagito. Ha anche partecipato a iniziative della comunità nera. Ma, dice Ramsey, non ci basta la retorica. Occorre una chiara linea politica di giustizia sociale, economica, politica, che ponga davvero fine alla violenza contro le persone di colore. «Altrimenti c’è il rischio che i black millennials resteranno a casa [le nuove generazioni nere di questo millennio] nella prima elezione presidenziale post-Obama».

Sul versante opposto, Donald Trump è visto con grande diffidenza da settori dell’elettorato evangelico, che nella destra è il più attivo e militante. Averlo a favore o averlo contro fa una grande differenza per un campione del conservatorismo che aspiri a una carica politica importante. Non piace agli evangelici la sua esibita ricchezza, legata peraltro in parte alla sua peccaminosa attività di imprenditore di alberghi con case da gioco, e neppure quel suo linguaggio scurrile, senza remore, con frequenti allusioni sessuali, che invece fa breccia in altre aree di elettorato conservatore. Importanti organizzazioni evangeliche si stanno già mobilitando per sbarrargli la strada e favorire uno dei due suoi principale rivali, Ted Cruz (il secondo è Marco Rubio).

Le simpatie dei bianchi e dei maschi

Inoltre – e si vedrà nel voto delle prime competizioni primarie – l’estremismo di Trump gli fa guadagnare simpatie nell’elettorato bianco e maschile, ma di questo è destinato a diventare ostaggio, precludendosi ogni possibilità di successo negli elettorati che ormai sono l’ago della bilancia in numerosi stati, le comunità etniche, i latinos, innanzitutto, e più in generale, l’elettorato femminile e le comunità gay.

Con un atteggiamento di sfida frontale contro tanti e importanti segmenti elettorali, è matematico che un candidato così sia condannato alla sconfitta. Per questo contro Trump si sta organizzando un variegato e danaroso fronte conservatore, mosso dal terrore di non poter riconquistare la Casa Bianca e dunque dalla prospettiva considerata inquietante che sia conquistata dall’odiatissima Hillary.

Dunque, la sceneggiatura di una storia con due soli protagonisti potrebbe essere soppiantata da quella di una storia molto più complicata e con un esito aperto.
Nel frattempo i temi che avevano dominato le due precedenti presidenziali non sono in agenda. Non lo è soprattutto l’economia, che è in ripresa. Ma, di nuovo, non è scontato che essa non torni al centro della scena perché diversi indicatori, domestici e internazionali, fanno pensare che la ripresa americana sia fragile e che possa presto riprendere la recessione.

L’altro grande tema è quello internazionale. Al netto delle critiche a Obama da parte di tutti i candidati repubblicani, e al di là della retorica, non si vede emergere una posizione determinata paragonabile alla dottrina Reagan o alle teorie neoconservatrici, non c’è nel campo conservatore un’idea del ruolo dell’America nelle crisi internazionali, le più gravi delle quali peraltro create da amministrazioni repubblicane. Certo, tutti giocano al rialzo e con cinismo la carta della paura. Dell’odio. Ma, anche in virtù di una totale ed esibita ignoranza dei dossier internazionali, nessun candidato fa capire che cosa farebbe ora al posto di Obama e, soprattutto, cosa farà una volta eletto.

Hillary fa l’acrobata tra la lealtà a Obama e la presa di distanze, ma è impresa impossibile, sia perché è stata segretario di stato nella prima amministrazione Obama, sia perché – e lo dimostrò proprio nelle vesti di segretario di stato – non ha un punto di vista sul Medio Oriente e sulle crisi in corso davvero diverso. Da una sua amministrazione ci si può aspettare una politica più muscolare e guerrafondaia in Medio Oriente, ma con chi, contro chi, anche con i soldati sul terreno o solo con l’aviazione? Hillary fu l’artefice del «reset button» nei confronti di Putin, ma oggi che politica condurrebbe nei confronti di Mosca?

Lo scenario convulso, nervoso, sgradevole in cui si disputa la corsa verso la presidenza è lo specchio di un’America politica confusa, in oscillazione tra velleità di superpotenza e la realtà prosaica di essere ormai potenza tra altre potenze, una nazione a cui non può essere obiettivamente riconosciuta una leadership né da chi invoca il ritorno di un’America forte, e considera Obama una spiacevole parentesi, né da chi pensa che, nonostante il crescente protagonismo delle potenze asiatiche, l’America detiene ancora la capacità imperiale di dettare un suo ordine mondiale. Lo spettacolo triste e mediocre di queste prime battute delle primarie ci fa capire in modo cristallino che quell’America, invocata o temuta e detestata, in realtà non esiste più.

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