Cento giorni a Roma senza un tetto
Problema casa Ad agosto 45 famiglie, cacciate da un palazzo a Cinecittà, hanno trovato riparo nel porticato di una chiesa nel centro della Capitale. Da allora vivono accampati in tende, ad aiutarli frati e volontari. Dal Comune dopo lo sgombero nulla
Problema casa Ad agosto 45 famiglie, cacciate da un palazzo a Cinecittà, hanno trovato riparo nel porticato di una chiesa nel centro della Capitale. Da allora vivono accampati in tende, ad aiutarli frati e volontari. Dal Comune dopo lo sgombero nulla
C’è silenzio e pace nella basilica dei Santi Apostoli, nel centro di Roma. Entrando ci si sente al riparo, almeno per un po’, dalla pioggia e dal caos della città.
Fuori però, nel porticato, si vede qualcosa di diverso rispetto alle altre chiese romane. Tende, materassi, letti: quasi tutto lo spazio è occupato da giacigli improvvisati. E poi scatole, valigie accatastate, panni stesi ad asciugare, un piccolo lavandino, stampelle, orsacchiotti e animali di peluche.
Qui vivono accampate un centinaio di persone, 45 nuclei familiari, sgomberate il 10 agosto da un palazzo occupato a Cinecittà. Hanno cercato un posto sicuro, e i frati francescani hanno permesso loro di dormire fuori dalla basilica. «Non potevamo rifiutarci», racconta padre Agnello Stoia, il parroco. «Abbiamo pensato di farli stare nell’atrio. È andata bene sia per loro che per noi».
LO SGOMBERO, iniziato all’alba nell’edificio occupato di via di Quintavalle, è stato violento. «Ci siamo barricati sul tetto, cercando di resistere», racconta Irene, 24 anni, che vive qui con il figlio di 3 anni e mezzo. «Poco prima di mezzogiorno, i poliziotti hanno fatto irruzione e ci hanno costretti a scendere».
In seguito, gli occupanti hanno messo in atto una protesta nella chiesa di Santi Apostoli, chiedendo al Comune una risposta. L’unica è stata la proposta di accogliere in case famiglia donne e bambini, separando i nuclei familiari. Gli sgomberati hanno detto di no, per restare insieme. Così hanno chiesto aiuto ai frati.
Sono passati tre mesi, cento giorni, e sono ancora qui. Italiani e stranieri – africani, latinoamericani, dell’Est europeo – uomini, donne, anziani e una ventina di bambini. Una piccola comunità, che ha trovato un modo di convivere. «Ci aiutano i movimenti di lotta per la casa», spiega Claudio, 58 anni. «Ci hanno fornito le tende, ogni giorno ci portano colazione, pranzo e cena».
[do action=”quote” autore=”padre Agnello Stoia”]Offriamo tè e latte caldo, l’acqua purtroppo solo fredda. Se potevamo ospitarli all’interno? Non c’è spazio, siamo più di quaranta frati[/do]
Anche i frati danno sostegno: «Offrono tè e latte caldo, ci fanno usare il bagno della chiesa», dice Donatella, 56 anni. Nei racconti si percepisce lo sforzo di conservare la dignità, anche in circostanze così anormali. «Ci autogestiamo, abbiamo turni per la pulizia», continua Donatella. «C’è un angolo cucina, uno su cui si stendono i panni, un rubinetto per l’acqua, però è fredda…d’estate andava bene, ora no. Ma grazie ai movimenti per il diritto all’abitare abbiamo luoghi in altre parti della città dove possiamo fare una doccia».
NEL POMERIGGIO piovoso, mentre uomini e donne parlano o riposano, i bambini giocano. Tra le tende e i materassi c’è un banchetto verde, che usano per fare i compiti. «I genitori la mattina portano i figli a scuola, spesso lontano da qui, poi magari vanno dall’altra parte della città a lavorare. Chi ha un impiego cerca di mantenerlo», osserva padre Stoia. «Non vogliono vivere di espedienti o alle spalle della comunità. La maggior parte ha perso un lavoro, o non ne ha uno sufficiente a pagare l’affitto. E si sono ritrovati così, per la crisi degli ultimi anni».
L’impoverimento, la crescente fragilità di ampie fasce della popolazione: l’occupazione della basilica, dice il parroco, «ha dato visibilità a questo problema, nel cuore di Roma. Ha mostrato un’altra faccia della città, che molti non vogliono vedere».
SECONDO IL PARROCO il Comune, responsabile degli sgomberi, non ha saputo trovare risposte valide per queste persone. «La proposta dell’assessora Baldassarre, di accogliere mamme e bambini in case famiglia, non è il giusto modo di affrontare la situazione. In un momento difficile come uno sgombero bisogna tenere le famiglie unite». Un’ipotesi prevista in un atto ufficiale del Comune è di trasferire gli sfollati in prefabbricati Ikea in via Ramazzini, in un’area della Croce Rossa. Soluzione temporanea ed emergenziale che gli sgomberati rifiutano.
Per Claudio, che con lavori saltuari non può affittare una casa, «il Comune considera fragili solo le persone con handicap, le donne o i bambini. Ma per noi lo sono tutti coloro che con lavori precari o malpagati non riescono a vivere dignitosamente. Gli sgomberi non vanno fatti senza alternative. A Roma ci sono 15mila persone in emergenza abitativa, nel 2016 ci sono stati 3600 sfratti, la maggior parte per morosità incolpevole. La questione va affrontata in modo strutturale, con un piano casa. C’è già una via, la delibera regionale sull’emergenza abitativa, con cui la Regione ha stanziato 200 milioni per far ripartire la graduatoria delle case popolari. Un’altra sarebbe recuperare palazzi abbandonati o tolti alle speculazioni. È quello che facciamo noi. Occupiamo stabili».
[do action=”quote” autore=”Un «ospite» del porticato”]Ci hanno mandato via senza offrire alcuna alternativa, se non a un gruppo ristretto. In città l’emergenza abitativa riguarda 15mila persone[/do]
NELL’ATRIO della basilica fa molto freddo. L’inverno imminente rende più dura la vita degli occupanti, e aumenta la preoccupazione per anziani e bambini. Ma non si poteva, chiediamo al parroco, sistemare queste persone all’interno degli edifici della chiesa, al caldo? «Non c’era spazio, siamo più di quaranta frati», risponde. Così, per ora le persone restano qui, nonostante il gelo in arrivo. A sostenerle è l’aiuto reciproco. «Nella disperazione c’è solidarietà. E c’è anche gioia, perché ci si sostiene a vicenda», riflette Tamara. «Qui siamo stati in pace. I bambini di diverse nazionalità giocano insieme. È un esempio di integrazione».
Il calore umano non può però far dimenticare il freddo, i disagi e la paura del futuro. «In questa situazione mi sono resa conto di come funziona davvero il mondo, della realtà che non vedi. Mi sono sentita piccola così», spiega Irene. «Sono delusa, spaventata. Spero che tutto si risolva, ma sono un po’ pessimista, non lo so». Sotto i portici intanto si attende. E si vive. Ieri una donna incinta ha avuto due gemelli. Abra, quattro anni, disegna seduta sugli scalini della chiesa, mentre la piccola Maylis, di due, fa il girotondo, e Amir, due anni anche lui, corre volteggiando un ombrellino multicolore.
Le foto di Costanza Fraia
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