Internazionale

Cent’anni di storia esplosi in un kibbutz

Militare israeliano sulle rovine del kibbutz Be’eri il giorno dopo foto Ap/Baz RatnerMilitare israeliano sulle rovine del kibbutz Be’eri il giorno dopo – foto Ap/Baz Ratner

Tremenda vendetta Il 7 ottobre gli israeliani potranno vedere in tv commemorazioni di natura molto diversa: quella di un governo che festeggia un anno di guerra e quella di chi ha sofferto o soffre tuttora direttamente per l’eccidio di Hamas. In memoria di C. e Vivian Silver

Pubblicato circa un mese faEdizione del 5 ottobre 2024

Da mesi in Israele si discute su come ricordare o «celebrare» quest’anno di guerra. Una proposta da parte di Miri Regev, la ministra dei trasporti, ha provocato reazioni furibonde. In molti hanno rifiutato l’idea di commemorazioni demagogiche, magari piene di lodi alla sua grande amica, la moglie del premier.

Le famiglie dei morti, dei dispersi e dei rapiti si sono dunque opposte con forza, annunciando la volontà di non prendere parte ad alcuna cerimonia ufficiale. Stanno invece organizzando un incontro dai toni sommessi, e non governativo. Dunque, il 7 ottobre gli israeliani potranno vedere in televisione delle commemorazioni di natura molto diversa: quella degli agenti corrotti di questo terribile governo, e quella di chi ha sofferto o soffre tuttora direttamente per i fatti di un anno fa.

Non esiste un 7 ottobre come questione indipendente: i fatti di quel giorno sono come l’esplosione di cento anni di storia. E determineranno le sorti future.

GIORNI FA ho partecipato alla cerimonia organizzata in un kibbutz che ospita i rifugiati di Kfar Aza, la comunità invasa, saccheggiata, bruciata il 7 ottobre 2023. Tante le persone uccise. Un luogo quasi irriconoscibile ormai. Quando ci andavo, prima, da là vedevo Gaza e i suoi villaggi.

C. viveva in quel kibbutz. Era diventata la mia assistente amministrativa quando avevamo costruito un nuovo dipartimento accademico presso il Sapir College. Otto anni di lavoro, con risultati brillanti, avevano fatto crescere fra noi una grande amicizia, che la fine dell’attività accademica insieme non aveva interrotto. Fino al 7 ottobre.

La mattina di quel giorno al suono delle sirene mi preoccupo in primo luogo di sapere se mio figlio è riuscito a mettere al sicuro le mie nipoti, nella città di Rehovot. Poi ricevo un messaggio da C. Le sue parole sono piene di preoccupazione; è rifugiata con suo marito in una stanza teoricamente più sicura. Ci sentiamo diverse volte, mentre la sua paura cresce. Le voci nella casa non sono abbastanza chiare per capire se si tratti di gente mandata da Hamas o se siano arrivati i soldati israeliani. Cerco di tranquillizzarla, ben sapendo che non posso riuscirci. Possiamo comunicare su Whatsapp, mentre le linee telefoniche normali non funzionano.

Verso le 15 le scrivo che secondo le informazioni alla radio, nel kibbutz Be’eri sono arrivati i soldati e che quindi presto arriveranno anche da loro. Mi scrive del suo terrore, di un suo conoscente che è già stato ucciso. Poco dopo le 15,30 non risponde più.

Preferisco immaginare che entrambi siano stati uccisi rapidamente e che C. non abbia dovuto subire, prima, le violenze inflitte a tante sue amiche. Non ho visto il suo cadavere né ho chiesto alle figlie chi l’abbia identificata.

UN ALTRO RICORDO di quei giorni. Dov’è Vivian Silver? Nessuno lo sa. La cercano i familiari, gli amici israeliani e anche alcuni amici palestinesi di Gaza. La nota pacifista e femminista non risponde più. Tutti sono convinti che sia stata rapita mentre nel suo kibbutz, Be’eri, nel frattempo gli assalitori armati si scontrano con l’esercito.

Arrivano notizie confuse. Un carrarmato israeliano si dirige verso una casa nella quale alcuni assalitori tengono in ostaggio diverse persone. Cosa è accaduto in seguito? Secondo una versione dei fatti, un ufficiale israeliano ha dato l’ordine di sparare alla casa – chi ha sparato? Il carrarmato, i soldati armati?

Alla fine della giornata, le strade di quello che era un kibbutz importante, anche dal punto di vista economico, sono cosparse di cadaveri: degli abitanti e degli aggressori.
Vivian non è stata rapita. Hanno poi identificato il suo corpo fra gli altri che giacevano nelle strade.

Nella commemorazione organizzata giorni fa dalle figlie di C. – ma una di loro non ha potuto arrivare dagli Stati uniti, per l’impossibilità di trovare un volo – ho incontrato molti conoscenti ed ex colleghi. Nel viaggio di ritorno, un’amica ha detto di aver apprezzato le parole di tutti in ricordo di C. e della sua famiglia, ma ha lamentato l’assenza di riferimenti politici.

CHI SEGUE ATTENTAMENTE le notizie sulla guerra ricorda che all’inizio l’immagine dell’olocausto primeggiava. In Israele, la sorpresa e la rabbia si esprimevano con commenti sul «mini olocausto» che stavamo vivendo. Questo concetto va analizzato bene per comprendere molti dei processi attuali. Parlare di mini olocausto significa intaccare il nostro atteggiamento di superiorità nella regione. Oggi è difficile sentire quel termine, soprattutto dopo i successi delle truppe israeliane nelle ultime settimane.

Successivamente, gli abitanti sfollati dal nord di Israele hanno a lungo ripetuto «ci hanno abbandonati»; e lo stesso hanno fatto i parenti dei circa 100 prigionieri tuttora nelle mani di Hamas. Si suppone che la metà di loro sia già morta.

Intanto, la guerra festeggia il suo primo compleanno.

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