Ccs, la controffensiva dei poteri fossili
Emissioni Gli impianti di stoccaggio di CO2 sottoterra richiedono grandi investimenti pubblici e non sono sicuri. Ma servono alle aziende oil&gas per continuare a inquinare
Emissioni Gli impianti di stoccaggio di CO2 sottoterra richiedono grandi investimenti pubblici e non sono sicuri. Ma servono alle aziende oil&gas per continuare a inquinare
C’è stato un momento in cui l’industria del fossile ha realizzato che c’era il rischio che si facesse sul serio, nel piano di eliminare le fonti fossili dal sistema energetico mondiale. Al Green Deal Europeo nel 2019 si aggiungeva, nel 2022, l’Inflation Reduction Act negli Usa (369 miliardi di dollari da investire in azioni volte alla riduzione delle emissioni di gas serra), e questo apriva una nuova era. Bisognava correre ai ripari, bisognava che le fonti fossili non fossero messe fuori gioco, almeno non entro il 2050, come necessario per mantenere l’aumento di temperatura della Terra entro 1,5 °C rispetto al valore preindustriale. E così si rinforzò la controffensiva, oggi in pieno svolgimento, che opera in diverse direzioni, una delle quali ha l’acronimo CCS (Carbon Capture and Storage, cattura e stoccaggio del carbonio): consiste nel raccogliere i fumi che escono dalle ciminiere delle centrali elettriche, delle acciaierie, dei cementifici, delle raffinerie, sottoponendoli a un trattamento chimico che permette di estrarne la CO2 pura, che viene trasportata mediante condutture fino a dove può essere iniettata in profondità sottoterra, in giacimenti esauriti di idrocarburi o in acquiferi salini, dove dovrebbe essere stoccata permanentemente. Si tratta di una tecnologia che, come ammette Fathi Birol, direttore esecutivo della Agenzia Internazionale dell’Energia che pure la sostiene, è “costosa e non provata”, ma che le aziende del fossile spingono con tutte le loro forze perché garantisce la loro sopravvivenza.
E la loro forza è tale da avere indotto il governo Usa a sostenerla con un sussidio che va da 50 a 85 $ per tonnellata di CO2 sotterrata.
Esistono da qualche anno alcune decine di impianti di CCS qua e là nel mondo, costosi e poco efficienti, nella maggior parte dei quali la CO2 viene pompata in giacimenti esausti per “spremere” il residuo di petrolio e/o gas rimasto e migliorare così i conti economici (e produrre altra CO2 quando questo residuo viene bruciato, vanificando in tutto o in parte l’obiettivo della CCS). Ma senza sussidi (che alla fine paga il cittadino e vanno nelle tasche dei petrolieri) non sembra si possa andare molto lontano. Nonostante ciò, la CCS è considerata come un’opzione necessaria nei piani di decarbonizzazione.
EPPURE, LO STOCCAGGIO SOTTERRANEO della CO2 presenta numerose controindicazioni, oltre a quella dei costi, della bassa efficienza e della incertezza sulla sua fattibilità su larga scala. Una è che gli investimenti richiesti nella cattura e stoccaggio di enormi quantità di CO2 riducono quelli sulle rinnovabili, che sono la sola soluzione definitiva, lasciando la porta aperta alla continuazione della dipendenza dalle fonti fossili (ecco perché piace tanto alle multinazionali del petrolio e del gas).
UN’ALTRA CONTROINDICAZIONE riguarda il tema della sicurezza. È necessario un monitoraggio continuo (per centinaia di anni, e chi se ne fa carico?) per essere sicuri che la CO2 non sfugga dal sottosuolo o dalle condotte che la trasportano dal luogo di produzione a quello di sotterramento. Infatti, nel caso di una crepa che si apre, spontaneamente o a causa di un terremoto o di una azione terroristica, o di una perdita nelle condutture, o di altro, non solo la CO2 finisce in atmosfera vanificando tutto il processo CCS, ma può creare grave danno locale immediato. Ciò perché quando viene rilasciata, l’anidride carbonica si accumula a livello del suolo in depressioni naturali e spazi chiusi essendo più pesante dell’aria.
EBBENE, GIÀ CONCENTRAZIONI di CO2 superiori al 4% rappresentano una minaccia immediata per la vita umana, causando narcosi con delirio, sonnolenza e coma. Concentrazioni superiori al 10% portano all’asfissia. È già successo, alcuni anni fa, nella valle che circonda il piccolo villaggio di Satartia, in Missouri, Usa, causando un avvelenamento di massa da CO2. In pochi minuti, dopo aver respirato l’aria, i residenti hanno avuto sintomi di soffocamento e alcuni sono svenuti. Quasi 50 persone sono state ricoverate in ospedale. Il disastro di quel giorno è stato causato dalla rottura di una conduttura di anidride carbonica che ha formato una specie di lago di CO2 sul fondovalle.
IN UN ALTRO CASO, LA SCUOLA DI UN PAESINO del Wyoming, Usa, che si trova nel mezzo di un giacimento esausto di petrolio ha dovuto essere chiusa a causa della tossicità dell’aria che vi si respirava, dovuta alle esalazioni di un pozzo, situato vicino la scuola e abbandonato da tempo. Le esalazioni erano iniziate da quando il giacimento esausto era stato utilizzato per stoccare la CO2. Pericoli, questi, di cui le compagnie Oil&Gas non parlano, come non parlano del possibile innesco di terremoti, che si sono già registrati in alcuni casi.
E DI FRONTE A TUTTO CIÒ, in che direzione si muove l’Italia? Si sta sempre più chiaramente delineando un disegno che prevede due azioni combinate. Una è che il nostro paese diventi centro di raccolta (hub) del gas proveniente da varie parti dell’Africa, del Mediterraneo e del Medio Oriente per alimentare la domanda di gas europea. Ciò comporta la costruzione di un buon numero di rigassificatori da sistemare qua e là lungo le coste, e di nuovi gasdotti (per esempio la proposta dorsale adriatica). Rigassificatori e gasdotti che dovranno funzionare a pieno regime per i prossimi due-tre decenni per essere remunerativi, quindi il gas dovrà avere ancora un ruolo importante nel sistema energetico europeo, in contrasto con l’obiettivo di azzerare le emissioni di CO2 per il 2050, cioè in contrasto con il Green Deal.
LA SECONDA AZIONE RIGUARDA invece la CCS. Si vuole che l’Italia diventi anche discarica di CO2, attraverso il progetto Callisto, che prevede – riferisce l’Ansa – di estrarre la CO2 dai camini industriali di Ravenna e Ferrara, e dell’area di Fos-Marseille, in Francia, spedirla in pressione verso i giacimenti esausti dell’Eni nell’Adriatico, e lì iniettarla attraverso i pozzi esistenti a oltre 2500 m sotto il fondale marino. Con orgoglio l’Eni rivendica che “l’hub di Ravenna sarà uno dei siti più grandi al mondo per lo stoccaggio della CO2 ed il principale del Mediterraneo”, offrendo una soluzione di decarbonizzazione per le industrie del Sud Europa.
CON IL PROGETTO CALLISTO E CON QUELLO di essere l’hub del gas per l’Europa, l’Italia è in prima linea nel fare in modo che la dipendenza da questa fonte fossile continui a lungo. Un bel piano, che potrebbe chiamarsi “piano Erode”, visto che le vittime designate sono le nuove generazioni, condannate a vivere – se ce la faranno – in un mondo dal clima impazzito.
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