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Caro Habermas, non si può incoraggiare il silenzio

Manifestazione pro Palestina a Francoforte sul Meno foto ApManifestazione pro Palestina a Francoforte sul Meno – foto Ap

Israele/Palestina La soppressione del dibattito libero su Israele e Palestina al quale lei contribuisce sembrerebbe contraddire le sue idee

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 23 dicembre 2023

Caro professor Habermas,
Forse non si ricorderà di me, ci incontrammo in Egitto nel marzo del 1998. Lei venne alla American University del Cairo in qualità di illustre visiting professor per confrontarsi con la facoltà, con gli studenti e con il pubblico. Erano tutti entusiasti di ascoltarla.

Le sue idee sulla sfera pubblica, sul dialogo razionale e sulla vita democratica erano una boccata d’aria fresca in un periodo in cui islamisti e autocrati in Medio Oriente soffocavano la libertà di espressione con il pretesto di “proteggere l’Islam”. Ricordo una piacevole conversazione avuta con lei a cena a casa di un collega sull’Iran e sulla politica della religione. Io cercai di comunicarle la comparsa di una società “post-islamista” in Iran, che in seguito sembra lei abbia sperimentato nel suo viaggio a Teheran nel 2002, prima di parlare di una società “post-secolare” in Europa. Noi al Cairo vedevamo nei suoi concetti fondamentali un grande potenziale per promuovere una sfera pubblica transnazionale e dei dialoghi transculturali. E abbiamo fatto tesoro del nocciolo della sua filosofia comunicativa su come il consenso-verità possa essere raggiunto attraverso il libero dibattito.

OGGI, CIRCA 25 ANNI DOPO, a Berlino, ho letto con inquietudine e preoccupazione la dichiarazione «Principi di solidarietà» che ha scritto insieme ad alcuni colleghi sulla guerra di Gaza. Lo spirito di questa dichiarazione sostanzialmente ammonisce coloro che in Germania denunciano, attraverso dichiarazioni o proteste, l’implacabile bombardamento israeliano su Gaza in risposta all’orrendo attacco di Hamas del 7 ottobre. Il testo implica che queste critiche a Israele sono intollerabili, perché il sostegno allo stato di Israele è una parte fondamentale della cultura politica tedesca, “per la quale la vita ebraica e il diritto a esistere di Israele sono elementi centrali degni di una protezione speciale”. Il principio della “protezione speciale” è radicato nell’eccezionale storia della Germania, nei «crimini di massa dell’epoca nazista».
È ammirevole che lei e la classe politico-intellettuale del suo paese siate irremovibili nel sostenere la memoria di quell’orrore storico così che orrori simili non

possano più colpire gli ebrei (e presumo, e spero, altri popoli). Ma la sua formulazione dell’eccezionalismo tedesco, e l’ossessione per esso, non lasciano praticamente alcuno spazio per una discussione sulle politiche di Israele e sui diritti dei palestinesi. Quando lei confonde le critiche alle “azioni di Israele” con “reazioni antisemite” sta incoraggiando il silenzio e soffocando il dibattito.

Da accademico, sono sbalordito nell’apprendere che nelle università tedesche – anche all’interno delle aule, che dovrebbero essere spazi liberi di discussione e ricerca – quasi tutti restano in silenzio quando si presenta l’argomento Palestina. Su giornali, radio e televisioni manca quasi del tutto un dibattito aperto e significativo sul tema. Addirittura, decine di persone, tra cui ebrei che hanno chiesto il cessate il fuoco, sono state licenziate dal posto di lavoro, hanno visto i propri eventi e premi cancellati, e sono state accusate di “antisemitismo”. Come dovrebbero deliberare le persone su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato se non è permesso loro di parlare liberamente? Che ne è della sua celebrata idea della “sfera pubblica”, del “dialogo razionale” e della “democrazia deliberativa”?

IL PUNTO È CHE LA MAGGIOR parte delle persone critiche e delle proteste che lei rimprovera non mettono mai in discussione il principio di proteggere la vita degli ebrei – e per favore, non confonda questi critici razionali del governo israeliano con i vergognosi neonazisti dell’estrema destra o altri antisemiti, che devono essere condannati e affrontati con forza. In realtà, quasi tutte le dichiarazioni che ho letto condannano sia le atrocità di Hamas contro i civili in Israele che l’antisemitismo. Chi muove queste critiche non contesta la protezione delle vite ebraiche o il diritto a esistere di Israele. Ma contesta la negazione delle vite palestinesi e del diritto a esistere della Palestina. E su questo la sua dichiarazione è tragicamente silente.

Non c’è un singolo riferimento nel testo a Israele quale potenza occupante o a Gaza prigione a cielo aperto. Non c’è nulla su questa perversa disparità. Questo per non parlare della cancellazione quotidiana delle vite dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est. «Le azioni di Israele», che lei ritiene «giustificabili in linea di principio», hanno comportato il lancio di 6.000 bombe in sei giorni su una popolazione indifesa; ben oltre 15.000 morti (il 70% dei quali donne e bambini); 35.000 feriti; 7000 dispersi; e 1,7 milioni di sfollati – per non parlare della crudeltà di negare alla popolazione cibo, acqua, riparo, sicurezza e un minimo di dignità. Le infrastrutture chiave della vita sono svanite.

SE, COME SUGGERISCE la sua dichiarazione, tecnicamente queste potrebbero non corrispondere a “intenzioni genocide”, i funzionari delle Nazioni Unite hanno però parlato in termini inequivocabili di “crimini di guerra”, “sfollamento forzato” e “pulizia etnica”. La mia preoccupazione qui non riguarda tanto il come giudicare “le azioni di Israele” da un punto di vista legale, ma il come interpretare questa freddezza morale e indifferenza che lei esibisce di fronte a una devastazione così impressionante. Quante altre vite dovranno perdersi prima che diventino meritevoli di attenzioni? Che significato ha “l’obbligo di rispettare la dignità umana” che la sua dichiarazione sottolinea con enfasi nella conclusione? È come se avesse il timore che parlare della sofferenza dei palestinesi possa sminuire il suo impegno morale nei confronti delle vite ebraiche. Se così fosse, quanto è tragico che la riparazione di un torto colossale commesso nel passato debba essere legata al perpetuare un altro mostruoso torto nel presente.

Ho paura che questa moralità contorta sia legata alla logica dell’eccezionalismo tedesco di cui lei è promotore. Perché l’eccezionalismo, per definizione, rende possibile non uno standard universale, ma standard differenziati. Alcune persone diventano così esseri umani degni, altri meno degni, e altri ancora indegni. Questa logica arresta il dialogo razionale e desensibilizza la coscienza morale; innalza un blocco cognitivo che ci impedisce di vedere la sofferenza di altri, frenando l’empatia.

MA NON TUTTI SOCCOMBONO a questo blocco cognitivo e a questo intorpidimento morale. A quanto mi risulta, molti giovani tedeschi esprimono in privato opinioni sul conflitto israelo-palestinese molto diverse da quelle della classe politica del paese. Alcuni addirittura prendono parte a proteste pubbliche. La generazione giovane è esposta ai media alternativi e a fonti alternative di conoscenza, e sperimenta processi cognitivi diversi rispetto alla generazione precedente. Ma la maggior parte delle persone mantiene il silenzio nello spazio pubblico, per timore di ritorsioni.

Sembra che stia emergendo una sorta di “sfera nascosta”, paradossale nella Germania democratica, simile a quella che c’era nell’Europa dell’est pre-1989 o che si trova oggi sotto i regimi dispotici in Medio Oriente. Quando l’intimidazione inibisce l’espressione pubblica, le persone tendono a costruirsi in privato le proprie narrazioni alternative su questioni sociali fondamentali, anche se in pubblico continuano ad assecondare le idee approvate ufficialmente. Una sfera nascosta di questo tipo può esplodere quando se ne presenta l’occasione.

Sono tempi spiazzanti questi, professor Habermas. Ed è proprio in questi momenti che la saggezza, la conoscenza e soprattutto il coraggio morale di pensatori come lei sono più necessari. Le sue idee determinanti sulla verità e sull’agire comunicativo, sul cosmopolitismo, sull’uguaglianza civica, sulla democrazia deliberativa e sulla dignità umana restano enormemente importanti. Tuttavia, il suo eurocentrismo, l’eccezionalismo tedesco e la soppressione del dibattito libero su Israele e Palestina al quale lei contribuisce sembrerebbero contraddire queste idee.

TEMO CHE CONOSCENZA e consapevolezza da sole possano non essere sufficienti. Del resto, come può un intellettuale “sapere” senza “comprendere” e comprendere senza “sentire”, come si chiedeva Antonio Gramsci? Solo quando “sentiremo” la sofferenza dell’altro, attraverso l’empatia, potrà esserci speranza per il nostro mondo travagliato.

Voglio ricordare le parole del poeta persiano del XIII secolo Saadi Shirazi:
«Son membra d’un corpo solo i figli di Adamo,
da un’unica essenza quel giorno creati.
E se uno tra essi a sventura conduca il destino,
per le altre membra non resterà riparo.
A te, che per l’altrui sciagura non provi dolore,
non può esser dato nome di Uomo».
Con rispetto.

*il testo di Asef Bayat è stato tradotto da Francesco De Lellis, la poesia di Saadi Shirazi da Mario Casari

Asef Bayat
Asef Bayat

*Asef Bayat, studioso iraniano-americano del Medio Oriente contemporaneo, di movimenti sociali e rivoluzioni, è attualmente professore di sociologia e studi sul Medio Oriente presso l’Università dell’Illinois Urbana-Champaign. Bayat ha insegnato per molti anni all’Università americana del Cairo ed è stato direttore dell’Istituto internazionale per lo studio dell’Islam nel mondo moderno (Isim). Noto soprattutto per il suo concetto di “post-islamismo” sviluppato in un saggio del 1996 intitolato «L’avvento della società post-islamica». Più recenti i libri «Life as Politics» (2013) e «Revolution without Revolutionaries» (2017) sulle primavere arabe.

 

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