Il segretario del Pd ci prova. Vuole chiudere la partita della coalizione entro oggi, prima che il disastro di immagine diventi irreparabile. Sfodera tutte le sue armi, quelle diplomatiche ma anche quelle più affilate, l’occhio, se non proprio tigresco, per una volta neppure da cerbiatto. Vede l’intero stato maggiore centrista, Calenda, Della Vedova e Richetti. Cerca di rimettere il rissoso Carlo al proprio posto, ricorda che le forze della sedicente coalizione godono di piena autonomia programmatica, reclama toni molto più civili. Poi è il turno dei rossoverdi, è tempo che si decidano e si diano una calmata anche loro. Avranno 4 collegi blindati e molti di più in bilico, anche se non i 25 richiesti. Avranno piena autonomia programmatica, come è ovvio in un’alleanza elettorale nella quale i fanatici dell’agenda Draghi chiederanno il voto insieme a chi quella agenda, che in realtà nemmeno esiste, la detesta.

I Verdi hanno già rotto ogni riserva. La Direzione nazionale vota un documento drastico: «L’alleanza con il M5S non è percorribile. L’unica alleanza che possa contrastare la destra è con il Pd». Serve a forzare la mano a Si, che invece ancora esita. Fratoianni e il suo gruppo dirigente sono però convinti. «Non c’è alternativa all’alleanza con il partito democratico», ha detto senza mezzi termini in segreteria un dirigente vicinissimo al leader. Per Fratoianni la rottura con i Verdi sarebbe esiziale, una iattura che va evitata a ogni costo perché costerebbe ogni chance di passare la soglia di sbarramento. Letta, poi, gli ha promesso che farà il possibile per mettere la mordacchia a Calenda. Oggi l’Assemblea nazionale confermerà l’alleanza senza passare per una consultazione con gli iscritti giudicata troppo rischiosa, ma che comunque l’ala contraria all’accordo intende reclamare impugnando l’assenza di unanimità in consiglio nazionale.

I termini dell’intesa sono però ancora incerti. Europa Verde ha fatto pervenire al Pd una lista di richiesta. In base a quante ne verranno accolte, e a quanto politicamente rilevanti, si vedrà se parlare di una parziale intesa programmatica o solo di un accordo dettato dalla mera necessità. Non che Letta possa però muoversi con le mani davvero libere. Sull’incontro con Calenda vige la consegna del silenzio ma si sa che il leader centrista ha ribadito la sua linea: «Il patto firmato è chiaro. Se il Pd ne firma anche un altro in contrasto, l’accordo salta». In queste condizioni il segretario del Pd dovrebbe ritenere conveniente limitare quanto più possibile le occasioni di conflitto interno all’interno della coalizione.

Perché ieri, nel corso di una mattinata da dimenticare, un raggelato Enrico Letta ha visto apparirgli davanti, come un incubo, quella che potrebbe diventare la campagna elettorale più disastrosa della storia. Come adolescenti afflitti da eccesso di testosterone i suoi futuri alleati si sfogano sulla tastiera tweetandosene di ogni. Nessun autocontrollo. Nessuna attenzione per gli effetti devastanti della sguaiata rissa. Conta solo il dimostrare alla propria base quanto si è capaci di maltrattare non i rivali ma i compari.

Calenda insiste nel provocare i già afflitti cocomeri con l’agenda Draghi, che chi non la accetta è fuori. Fratoianni per le rime: «Quell’agenda non esiste. Povero, deve correre in cartoleria a comprane un’altra». Il centrista fuori dai gangheri: «Per loro non c’è spazio nella coalizione». Bonelli dagli schermi: «Il bambino Calenda va educato, sennò cresce male». Il pupo in questione se la prende con Letta ritwittando l’intemerata del verde: «Vorrei capire se si può pensare di lavorare insieme così, Enrico Letta. Boh». Nel vortice finisce anche Dario Franceschini. Prova a invitare i contendenti a «rispettarci a vicenda e accettare la nostra diversità». Il leader di Azione, scatenato, lo azzanna: «Dario, il terzismo alla volemose bene con noi non funziona. Chiarite. Punto».

Il nodo che Letta deve provare a sciogliere oggi è questo. Non convincere i riottosi soci a fingersi alleati. Quello, alla fine, dovrebbe essere possibile. Lo scoglio è partire con una formula abbastanza chiara, vincolante e accettata da tutti da evitare di trasformare la campagna elettorale in una guerra civile interna, utile solo alla destra. Non è e non sarà facile perché la strategia di Calenda non lo obbliga affatto ad abbassare i toni, casomai il contrario. Ma anche perché la pretesa di mettere insieme posizioni antitetiche e leader che si detestano forse è un po’ troppo persino per il gesuitico Pd di Enrico Letta.