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Cagliari malata di “sviluppite”

Cagliari malata di “sviluppite”Cagliari, il quartiere Sant'Elia

La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo»

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 17 aprile 2014

Cagliari ha tremila anni. Qua, a novanta miglia dall’Africa, i fondatori trovarono un golfo sul palmo di un dio, promontori e colli di roccia bianca dove vivere era facile.

I nuragici ermetici. Poi i Fenici tracciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Vandali. Poi Bisanzio e i due evi medi. L’epoca dei Giudicati, le invasioni moresche, i Pisani e i Genovesi. Eleonora d’Arborea e il suo nuovo ordinamento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spagnoli e la decadenza. Il Settecento, i Savoia, il Regno di Sardegna la rivoluzione poi e la modernizzazione ottocentesca. Gli echi del Risorgimento.

Poi il XX secolo. Antonio Gramsci fa il suo liceo a Cagliari. La carneficina della Grande Guerra. Pastori e contadini, riuniti nella Brigata Sassari mandati a morire sul Carso e Emilio Lussu. Poi il fascismo, la seconda guerra, l’occupazione tedesca senza sangue, i bombardamenti anglo-americani del ‘43. La città inizia la sua ricostruzione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe dirigente insieme ai nuovi brutti quartieri, anni 50 e 60, che la raffigurano. L’edilizia caccia via l’architettura. Impresari e commercianti disegnano la città sulla propria immagine e producono una generazione politica conformata, come un calco di gesso, alla loro visione materiale delle cose. I cosiddetti intellettuali si rifugiano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lontano dalle azioni.

Ma qualcosa cambia negli ultimi decenni. Si smette di masticare i fiori di loto e la memoria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si riconosce. Si risveglia un’anima critica che comunica, osserva ed è interessata alle proprie origini. E ricava energia dal passato senza essere passatista. Guarda indietro per essere moderna perché quando uno sa da dove viene non ha bisogno di altro. E si oppone alla frenesia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mercantile, resta forte.

La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo» mentre dimostra che quando la politica si confonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.

Cagliari è un’incubatrice di questa malattia. Però la storia è incancellabile. I luoghi resistono e mettono in movimento gli avvenimenti. I morti della necropoli di Tuvixeddu possiedono la forza dell’assoluto e ancora determinano conseguenze. La rocca medievale resiste ai tentativi di renderla «progredita» con scale mobili e ferraglia. Il promontorio sacro della Sella del Diavolo resterà intatto anche se la città famelica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resisterà ai nuovi assedianti che oggi vogliono un volgare garage dentro le sue mura.

Nel 1956 avevo cinque anni. Il braccio quasi lussato quando passeggiavo a traino delle mani inaccessibili di mio padre, il lungomare, il mercato al centro della città, le barche che tornavano tanto cariche che i pescatori stavano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sembravano piovre, le anguille scappavano dalle cesti nelle corsie del mercato, i pesci boccheggiavano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.

Ma i fattisi muovevano per necessità che non comprendevo. E non obbedivano a nessuno.

Ero troppo piccolo per capire cosa accadeva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, semplicemente, non guardavo perché, appeso alla mano di mio padre, osservavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico orizzonte per me.

So che i monti che vedevo a meridione erano il profilo dei monti del golfo, ma allora credevo che fosse l’Africa perché sentivo ripetere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.

Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delusione. Però continuai a crederci.

Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova meraviglia che il maestro, ammirato dal progresso benché conservasse la sua casa come un salotto di Nonna Speranza, ci aveva già annunciato a scuola.

Il grattacielo.

Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo presente e tutti volevano solo presente e futuro.

Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stupore quello che provai vedendo quel lungo parallelepipedo grigio con decine e decine di finestre funerarie. Ancora oggi ricordo la sensazione di perdita che provai e ricordo che non compresi, ero troppo bambino, quel sentimento.

Quella costruzione infantilmente chiamata grattacielo, che ancora esiste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, talmente brutto che diventò proverbiale.

Però il brutto è epidemico e quando inizia si moltiplica con enigmatica testardaggine. Non lo fermi più. Deve, si vede, necessariamente trascorrere e concludersi un’epoca.

Eppure tutti vedevano.

Fu un’amnesia di massa che non è mai cessata da allora. E chissà se riacquisteremo mai la memoria.

Ma, l’ho detto, tutti volevano abbandonare il passato, anche quello buono.

Mia nonna, mentre passeggiavo e giocavo in un terrapieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che cominciava a esserci troppo cemento e che tutti questi nuovi arrivati dal contado – così chiamava gli inurbati che arrivavano da ogni parte dell’isola – stavano rendendo deforme la città. Che lei era comunista, ma questo non le impediva di capire che c’erano persone rese feroci proprio dall’arrivo in città e che avevano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un ignorante non sa mai di essere ignorante.

Appena tirano su un muro si fanno chiamare cavalieri e commendatori, ripeteva.

D’altronde il cemento aveva reso facile e possibile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribolliva di cemento, ma io non lo sapevo. E neppure nonna. Però osservava la sua città.

Lei vedeva la bruttezza del cemento, capiva che non si può mettere insieme cemento e pietra perché invecchiano in modo diverso, che la pietra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.

Il cemento è un materiale che non sa invecchiare. La pietra, invece, è già vecchia, esiste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a disegnare forme squallide.

Era squallido anche il bar aperto al piano terra nel «grattacielo», cattive le brioche, il caffè puzzava di bruciato e un moscone giaceva a pancia all’insù, mummificato per sempre in un angolo della vetrina pretenziosa.

Dentro quel palazzone c’erano però alcuni segnali importanti del presente che seduceva la comunità e la convinceva che il passato era vergognoso.

Però è vero che nella mia città una luce che non finiva neppure la notte e un sole felice anche d’inverno mi facevano sentire fortunato e lontano da ogni pericolo.

Traslocammo nel 1962 in una nuova casa.

E tutto mutò.

La nostalgia è un sentimento indispensabile, ma deve essere organizzato. Sennò si soffre. Oltretutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.

Traslocammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa luminosa, moderna, con due bagni, con davanzali, una portineria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.

Quel quartiere era il confine della città storica, però mi sembrava un salto nel futuro. E ogni volta che passavamo vicino alla vecchia casa trascinavo la mano che mi conduceva per entrare dentro il portone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.

Il trasloco cambiò i giorni e le ore della famiglia, cambiò perfino l’espressione dei genitori, il linguaggio, i vestiti, le abitudini a tavola, la pulizia domestica e perfino l’igiene del corpo, gli odori e la memoria degli odori.Il trasloco è l’allegoria del cambiamento inevitabile, ma non necessario.

Con il camion carico di mobili apparve la differenza tra presente e passato, tra una fine e un inizio.

Babbo aveva battuto a macchina il suo nome su un foglio, ritagliato la striscia di carta e l’aveva infilato nella fessura del nuovo campanello. Poi aveva letto a voce alta il proprio nome e schiacciato il pulsante. Quel trillo era il segnale della città nuova.

 

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