Maristella Cacciapaglia, sociologa alla Statale di Milano, lei ha analizzato il «reddito di cittadinanza» come sistema di Workfare nel libro «Con il reddito di cittadinanza. Un’etnografia critica» (Meltemi, pp.138, 12 euro). Ci sono diverse segnalazioni di persone che, pur partecipando ai corsi di formazione voluti dal governo Meloni, non ricevono i 350 euro del sussidio di formazione e lavoro. Altri invece lo hanno ricevuto. Che succede?
È una delle possibili conseguenze di un progetto partito senza prima avere risolto i problemi delle politiche attive del lavoro in Italia. È assurdo pensare di farlo in un paese dove la gestione di queste politiche resta divisa tra le Regioni e governo o dove le piattaforme digitali non comunicano, e non sono performative, come in questo caso. Ricordo che anche i corsi di formazione nel reddito di cittadinanza non sono partiti in moltissimi casi, né si può parlare di un successo nel collocamento lavorativo dei suoi beneficiari. Restano gli stessi problemi che difficilmente troveranno una soluzione, e sicuramente non in questa maniera.

maristella cacciapaglia
Maristella Cacciapaglia

Cosa sono le politiche attive del lavoro?
Sono interventi che, in teoria, dovrebbero migliorare l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro: un corso di formazione, un percorso di orientamento, un sostegno a una nuova impresa. Rivestono un ruolo centrale nelle politiche pubbliche e sono considerati strumenti ideali, a destra e a sinistra. Sono politiche da maneggiare con cura perché da sole non possono funzionare. Servono politiche industriali, sociali, dei salari, per esempio. Ad oggi tutto questo però non c’è.

Qual è la differenza tra il «reddito di cittadinanza» e l’assegno di inclusione, e il supporto per la formazione e il lavoro, che lo sostituiranno?
La riforma del governo Meloni ha messo l’accento sull’occupabilità che era già presente nella misura precedente. Ma l’occupabilità non corrisponde necessariamente a un’occupazione dignitosa. E non significa non essere più in una condizione di vulnerabilità. Ancora una volta si rafforza il paradosso: l’accesso a un diritto come il Welfare è legato a un lavoro probabilmente senza diritti.

Persone che vogliono lavorare, ma non trovano lavoro, sono trattate come «scrocconi» dello stato sociale perché ricevono un sussidio. Come si spiega quest’altro paradosso?
È un altro risultato del paradigma neoliberale che ispira questa politica. Serve a scaricare sulle spalle dei più poveri responsabilità ben più grandi di loro. Si considera la povertà una condizione individuale e non una condizione strutturale prodotta da un sistema.

Lei ha definito queste politiche come un Workfare. Di cosa si tratta?
Il Workfare è un assetto dello Stato sociale basato su meccanismi di controllo, valutazione e sanzione che possono essere applicati anche attraverso le politiche attive del lavoro. Funzionano quando si produce l’immagine stereotipata del povero che non vuole lavorare, mentre tutte le testimonianze che abbiamo raccolto dimostrano il contrario. Queste persone cercano un lavoro, ma non sono intervistate, non hanno peso e non glielo si vuole dare.

In Italia esiste il Workfare che si vede in altri paesi come la Germania, l’Inghilterra o la Francia?
Esiste in teoria, non ancora nella pratica. Le leggi sono state pensate per creare un sistema di coercizione e punizione dei poveri. Per fortuna nella realtà non è così. Invece di aspettare che diventi una realtà bisogna cambiare direzione e creare un Welfare basato su servizi pubblici per il lavoro ma senza vincoli. E con migliori condizioni di lavoro per chi in questi servizi ci lavora già oggi.

Lei sostiene la necessità del reddito di base. È realizzabile?
La possibilità forse oggi non c’è, per quanto ci siano sempre più sperimentazioni ovunque. Se ci fosse la volontà politica ci sarebbero i mezzi per consolidare un sistema simile anche da noi. Non bisogna dimenticare che per funzionare un reddito di base ha bisogno di un Welfare universale: sanità, istruzione, lavoro, un fisco giusto e servizi, per cominciare.