Estremista. Spocchioso. Fazioso. Difficile. Noioso Litigioso. Ma anche: Indispensabile. Lucido. Colto. Informato. Originale. Internazionale.

Dodici aggettivi in dissonanza tra loro, ma forse tutti applicabili a un giornale, e a un collettivo, unico e necessario. E la riprova è che nei suoi animati cinquant’anni di vita (cui andrebbero aggiunti i tre della Rivista mensile) ha sempre avuto una navigazione turbolenta ma, come l’araba fenice, è sempre risorto dalle sue crisi, interne ed esterne. Anche da quella, tremenda, del 2012-2013.

Per la mia generazione (1942), troppo giovane per la politica tradizionale troppo vecchia per un’adesione acritica ed entusiasta al Sessantotto, una lettura formativa, politicamente e culturalmente.

Una bussola, anche quando, nel corso degli anni, si era distanti da alcune delle posizioni assunte. Un quotidiano libero che incrementava (e incrementa) la libertà dei lettori, aiutandoli a orientarsi nel marasma del secondo Novecento e ancor più del nuovo Millennio, quello in cui ci stiamo giocando il futuro nostro e del pianeta.

Ripercorrendo nella memoria la storia di questi ultimi, feroci trent’anni, mi rendo conto che il manifesto non solo ha sempre discusso criticamente dottrine e dogmi, a partire da quelli di sinistra, ma ha anche sempre perseverato nell’«affermare l’esistenza di qualcosa che si erge contro il nulla», per citare quanto, in altro contesto, scriveva Philippe Jaccottet.

E nel praticare tenacemente la condivisione: «Salvarsi da soli è avarizia, salvarsi insieme è politica» sosteneva don Milani. Su questo crinale il manifesto si è sempre mosso.

Ma oggi la politica, già da tempo «la sezione intrattenimento dell’apparato militare e industriale» (Frank Zappa), è stata fagocitata dalla globalizzazione e dall’elettronica (che abolisce ogni mediazione) e il potere economico finanziario, come la malavita e le mafie, trasvola tranquillo e sicuro su ogni tipo di confine. (Ah, come ci manca Brecht!)

Basta seguire, anche solo neghittosamente, l’informazione quotidiana, cartacea, radiofonica, televisiva, elettronica, per rendersi conto che viviamo ormai in una distopia orwelliana e che lo spazio residuo di autonomia si restringe sempre di più.

Ma la pandemia, come il bambino della fiaba di Andersen, ha svelato a tutti che il Re è nudo, e quindi è falso il dogma ideologico secondo cui il benessere della società si basa sul benessere delle imprese e del capitale.

Certamente questa tendenza dell’imperialismo capitalistico ha sostegni che sovrastano le forze di un giornale, sia pur coraggioso e agguerrito qual è il manifesto. Però alla fine della pandemia ci sarà un paesaggio di rovine e di miseria, si vede già crescere l’onda totalitaria mentre il disastro ecologico procede inesorabile: motus in fine velocior.

Limitandosi all’Italia, la situazione è sotto gli occhi di tutti: crisi sanitaria, ambientale, economica, demografica, politica.

Quello che occorrerebbe fare è chiaro e più volte è stato auspicato: dalla riqualificazione e messa in sicurezza degli edifici scolastici e abitativi al recupero dei territori abbandonati e dei borghi e centri storici della spina appenninica da Piacenza all’Aspromonte, dalla rete idrica alla messa in sicurezza della rete stradale, anche, e soprattutto, quella provinciale, dalla bonifica delle aree inquinate al recupero delle aree montane abbandonate… l’elenco potrebbe procedere per pagine e pagine ed esiste ormai un genere letterario in proposito.

Allora avremo sempre più bisogno, e non solo per conforto, di voci indipendenti informate e controcorrente. Di un punto di riferimento. Di qualcosa che ci faccia sentire meno soli. Di un giornale che descriva il reale stato delle cose o, meglio, che sappia interpretarlo. Del manifesto.