Buongiorno in musica a Yarmouk
Intervista Ayham Ahmad è diventato famoso suonando il suo pianoforte in strada nel martoriato campo profughi alle porte di Damasco. Ora lo strumento è andato distrutto, ma nella musica lui ha trovato quella libertà che di solito viene negata ai palestinesi
Intervista Ayham Ahmad è diventato famoso suonando il suo pianoforte in strada nel martoriato campo profughi alle porte di Damasco. Ora lo strumento è andato distrutto, ma nella musica lui ha trovato quella libertà che di solito viene negata ai palestinesi
Il campo profughi di Al Yarmouk si trova a soli otto chilometri da Damasco. Edificato nel 1957 e con un’estensione di circa due chilometri quadrati, è stato abitato, fino a prima dello scoppio del conflitto siriano nel 2011, da circa 160 mila rifugiati palestinesi, ospitandone così la più grande comunità presente sul territorio siriano.
A seguito dei 450 giorni di assedio imposto nel 2013 dalle forze di Bashar al Assad, l’insediamento vive una devastante crisi umanitaria, aggravata dall’occupazione, lo scorso 1 aprile, dei miliziani dell’autoproclamato Stato Islamico, oggi in parte respinti da alcune fazioni presenti nall’interno del campo.
Paradigma dell’intera crisi siriana, Yarmouk si presenta come una città fantasma, con strade e case per lo più abbandonate e nuclei familiari divisi. Una seconda Nakba, per i palestinesi di qui, figli di un popolo senza terra, vissuta, forse, solo tramite le limpide memorie dei più anziani. La “catastrofe” del 1948 è un qualcosa che torna, ancora una volta, a ferire l’inquieta storia palestinese. Ma c’è chi è rimasto a riempire quel vuoto spettrale con note di speranza.
Ayham Ahmad, 27 anni, è un giovane palestinese di Yarmouk. Prigioniero in casa propria, non ha mai smesso di ricercare quella libertà negata, sepolta sotto le macerie di Damasco. Un, seppur fragile, collegamento Skype ci ha aiutato ad ingannare la realtà, permettendoci di varcare, per un istante, quelle rigide barriere imposte dalla guerra. Un cartello in arabo, tenuto all’altezza del petto, dice «buongiorno», come a ricordarci quotidianamente del proprio diritto all’esistenza. Voce tranquilla, volto solare, si racconta ogni giorno nel silenzio generale, attraverso le note del suo pianoforte che con coraggio trasporta lungo le strade deserte e martoriate di al Yarmouk assediata.
Quando hai incominciato a suonare?
Da bambino, avevo 7 anni. Poi mi sono iscritto al conservatorio di New Cham, vicino Damasco, ma ho continuato anche dopo l’Università che ho frequentato, invece, a Homs. Avevo bisogno di suonare. Ma il 17 dicembre di due anni fa tutto è cambiato. Yarmouk è stata chiusa e sono iniziati i primi problemi. Con la caduta del campo ho scelto di suonare il piano in strada. È stato l’unico luogo in cui ho potuto esercitarmi ogni giorno.
Cosa ti ha spinto a suonare in strada?
Inizialmente pensavo che l’idea di suonare in strada fosse ottima per dare la possibilità alla gente di Yarmouk di ascoltare musica “internazionale”. Beethoven, Mozart, Ciajkovskij per esempio. Dopo invece, ho deciso di farlo principalmente per esprimere e narrare i loro sentimenti. Sentivo che la mia musica doveva essere per i palestinesi, doveva raccontare la loro storia, la mia storia. Le voci di Yarmouk, sono le mie canzoni. Raccontano la rabbia del campo, l’assedio, la mancanza di acqua, la fame e l’isolamento che ci è imposto per via della guerra.
Spesso ti si vede, in alcuni video su internet, circondato da ragazzi che cantano con te…
Si, infatti. Ho iniziato a suonare in strada da solo, ma poi fortunatamente ho trovato persone a cui questa idea è piaciuta e che hanno deciso di perseguirla insieme a me. Abbiamo anche costituito un gruppo, gli Shebab Yarmouk, i giovani di Yarmouk. In questo modo abbiamo voluto lanciare un messaggio di pace e benevolenza all’interno del campo e non. I ragazzi non studiano musica, ma possono comunque cantare. Abbiamo iniziato a suonare insieme anche perché, avendo studiato al conservatorio, avrei potuto dare loro la possibilità di imparare e di approcciarsi alla musica. Insieme abbiamo scritto quasi 100 brani.
E i bambini? Come hanno reagito?
A loro piace molto la musica e spesso cantano con me. È sicuramente un modo per loro per fare qualcosa, per tenersi impegnati e distrarsi da una situazione difficile. Ma ciò che ho imparato è che nelle difficoltà nasce la forza per cambiare qualcosa. Da poco ho iniziato a insegnare in una scuola, anche se è una scuola “d’emergenza”, dove abbiamo organizzato vari eventi e concerti per la comunità del campo.
Cosa hai provato la prima volta che hai suonato in strada?
Sinceramente è stato triste, perché sapevo di non avere la possibilità di potermi esibire in condizioni “normali”, non so, su un palco per esempio o in un bel teatro, insomma, in situazioni migliori di questa, ma dall’altro lato sono stato molto felice; il vedere i bambini contenti o le altre persone che si avvicinavano per ascoltare è stato importante per me, perché ho avuto la prova che stavo facendo qualcosa di buono e di utile per il campo. Yarmouk è un luogo pieno di problemi, anche tra le stesse fazioni palestinesi, lontane per le loro visioni, ma unite nella musica.
Quale impatto ha avuto la tua musica sulle persone che ti hanno ascoltato per la prima volta?
È da circa due anni che suono in strada. Molti non conoscevano il pianoforte e mi chiedevano «cos’è questo strumento?». Però hanno subito percepito quelle sensazioni che il suono del piano creava intorno a loro. Sentivano di aver trovato qualcosa, un mezzo forse per affrontare la realtà e per potersi esprimere e parlare liberamente di cosa è oggi Yarmouk. Hanno trovato nella musica la libertà. Sono stati attratti perché in un certo senso parlavo di loro e delle nostre storie comuni.
Quali sono le condizioni di vita a Yarmouk ora?
La situazione è tragica: non c’è elettricità né cibo, non c’è praticamente nulla. Alcune associazioni che operano nel campo cercano ogni giorno di soddisfare le esigenze primarie della popolazione. Un problema grave è l’acqua potabile, che manca quasi completamente. Le associazioni si limitano ad aiutare le persone economicamente più deboli. L’acqua è troppo costosa e non tutti riescono a procurarsela.
Quante associazioni lavorano nel campo?
Quattordici, ma solo due sono attualmente attive. Pur lavorando ogni giorno, la fame sembra incontrastabile. Molte persone lavorano duro per avere semplicemente un piatto di zuppa, ovvero acqua, sale e riso, che è pur sempre qualcosa per tenere piena la pancia. Un chilo di riso costa 25 dollari, forse 3 o 4 dollari in meno per chi riesce ad uscire da Yarmouk. Per gli abitanti di Babbila, invece, cittadina a circa 5 chilometri dal campo, il prezzo di un chilo di riso è sceso a 12 dollari grazie agli accordi tra combattenti e governo. Ma rimane sempre un bene molto costoso perché la stragrande maggioranza non riesce a lavorare da mesi. Inoltre ora è anche molto pericoloso uscire di casa per cercare del cibo, per via dei bombardamenti e dei frequenti scontri nelle aree sia interne che limitrofe al campo. Un altro problema serio è il freddo. Alcune famiglie lo scorso inverno hanno iniziato a bruciare tavoli e sedie. Su 18 mila persone rimaste a Yarmouk, circa 3.500 sono bambini. Il freddo è molto pericoloso per loro, rischiano l’assideramento.
Quale è il messaggio che vorresti diffondere con la tua musica?
Il campo è come se fosse una piccola Siria. Noi però non vogliamo la guerra, vogliamo una vita normale. Yarmouk ora è distrutta, ma vorremmo ricostruirla, ma per farlo le persone che sono andate via devono tornare. Il primo messaggio è rivolto a loro ed è che ognuno di noi può fare qualcosa, soprattutto i giovani. Nulla è finito, possiamo ancora sperare nel futuro e nella vita. Penso che la musica sia una lingua per comunicare con il mondo. Diversi sono i messaggi, alcuni li ascolti e li percepisci, ma non puoi esprimerli a parole. Molti usano la musica per se stessi, per successo, per propaganda o per guerra, ma non la vivono realmente. Io preferisco fare musica per la musica e parlare attraverso di essa. Per questo vorrei suonarla ovunque e potermi sentire libero di suonare per la libertà. «Ho dimenticato il mio nome – dice una mia canzone -, ho dimenticato le sue lettere e i suoi significati; ho dimenticato le parole, quelle che ho pronunciato con il canto. Ma qui si vive ancora, qui, accanto a un pezzo di pane e a del cibo in scatola. Quanto è bello essere palestinese, quanto è triste essere palestinese. Ho dimenticato il mio nome!».
Il pianoforte di Ayham è andato distrutto, il giorno del suo ventisettesimo compleanno, durante alcuni scontri nel campo. Nonostante questo, continua oggi a parlare al mondo, con le note strozzate di una tastiera a batterie, in concerti via Skype, unico canale di espressione di se stesso rimastogli, unica voce del campo capace di sfondare il muro del silenzio. Perché questa è Al Yarmouk, dove la luna è incompleta, ma la vita va avanti.
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