Il Salvador vive da un anno in stato di emergenza. Militarizzazione delle città, arresti massivi di membri delle maras e processi sommari hanno ridotto drasticamente i tassi di omicidio del paese, rendendo Bukele il presidente più popolare dell’America Latina. Dietro l’enorme macchina della propaganda governativa si nascondono però detenzioni di innocenti, eliminazione dello stato di diritto, accordi sotterranei con le maras e decine di morti nelle carceri governative.

Lo scrittore e giornalista salvadoregno Oscar Martínez, autore di diversi romanzi che esplorano in profondità le violenze centroamericane e caporedattore de El Faro, è una delle più risonanti voci continentali ad aver denunciato le ombre che si celano dietro i fari della propaganda governativa di Bukele.

Le politiche sicuritarie di Bukele sembrano accompagnate da un consenso generalizzato nella popolazione salvadoregna. È effettivamente così?

Sì. I dati non mentono: Bukele oggi è il presidente più popolare del continente. Da quando è al potere, nel 2019, ha mantenuto un appoggio popolare superiore all’80%. Vincerà senza dubbio le elezioni incostituzionali del 2024 (una nuova candidatura sarebbe contraria alla Costituzione) e governerà El Salvador fino al 2029. Questo è un fatto. Proprio grazie all’appoggio popolare ha modificato le regole del gioco a suo favore. Controlla i tre poteri dello Stato ed ha trasformato il suo governo in un regime autocratico. Con qualche tinta di democrazia ma ben più evidenti segnali di autoritarismo.

La figura di Bukele sta diventando un nuovo riferimento politico per alcune destre latinoamericane, in fase di riconfigurazione dopo le multiple sconfitte elettorali degli scorsi anni (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Perù). La sua opacità ideologica sembra trovare stabilità solamente nella lotta alle maras. Crede che Bukele si stia proponendo come modello fondazionale di un nuovo “populismo conservatore” continentale?

Da tempo mi sto chiedendo se effettivamente Bukele costituisca un modello nuovo, se sia riuscito a cambiare le regole, se abbia inventato una nuova forma di consolidamento del potere in America Latina. Ma credo di no. Bukele ha semplicemente utilizzato meglio alcuni strumenti, con un ottimo tempismo. I patti clandestini con le maras non sono cosa nuova nel Salvador. Lo ha fatto l’FMLN nel 2012. La centralità del tema della sicurezza e le politiche di repressione carceraria nemmeno: il primo piano “mano dura” fu lanciato nel 2003 dal presidente conservatore Francisco Flores. Non è una questione di originalità. Bukele ha saputo leggere i segnali del paese, ha raccolto le istanze di una società poco democratica e facilmente polarizzabile. Una società disperata dai tradimenti della classe politica, che non vuole più promesse di uno statista, ma miracoli di un messia. Non chiede politiche pubbliche, ma un piano di salvezza. Bukele non ha inventato nulla di nuovo. Ha solo messo insieme alcune delle peggiori formule del potere autocratico continentale. In certi tratti ricorda Fujimori: un mago della propaganda che riesce a imporre come generalizzata la sua rappresentazione del nemico.

Sfruttando un ‘nemico facile’: le organizzazioni criminali delle maras, verso cui la popolazione non ha alcuna empatia.

No. E per capirlo bisogna fare un passo indietro. Una delle peggiori lezioni che il Salvador ha dato al mondo è che la fine di una guerra non implica l’inizio di una pace. La fine di una guerra si decreta. La pace si costruisce. El Salvador non ha mai vissuto un processo di riconciliazione. Non si è mai costituito un tessuto sociale fondato sul dialogo. Ciò ha permesso la prosperazione delle Maras: gruppi criminali che hanno imbarbarito la popolazione più povera del paese. Gruppi le cui identità culturali si sono fondate sul sadismo: più efferato sei, più punti guadagni nella gerarchia del gruppo. Per questo non esiste nessun tipo di solidarietà da parte della società civile. Al contrario, dilaga una vocazione di vendetta e un’allergia a comprendere le ragioni per cui questi gruppi sono sorti.

Tecoluca, nel più grande carcere delle Americhe (Ap)

I processi politici sono stati così inefficienti che ora la popolazione chiede solo la morte dei pandilleros. Il politico che la promette ottiene risultati elettorali. Va avanti così dal 2003. Se in cambio si propongono alternative di repressione intelligente, sistemi di indagine indipendenti, progetti di reinserimento in società, non si vincono le elezioni. Al salvadoregno è stata insegnata una logica nefasta: la violenza si risolve con i proiettili.

Questa “vocazione alla vendetta” è intercettata anche mediaticamente da Bukele, che sta costruendo una vera e propria narrazione della repressione: i video che diffonde sui social network raccontano in una prospettiva eroica il trattamento inumano verso i pandilleros incarcerati.

Le famose immagini dalle carceri, che stanno facendo il giro del mondo, sono un montaggio cinematografico di propaganda. Bukele ha realizzato un vero e proprio casting per trovare i personaggi più adeguati. Ha scelto le duemila persone più tatuate, possibilmente con una M e una S sulla testa, tra le 64mila persone arrestate durante lo Stato di emergenza. La maggioranza di esse non ha alcun tatuaggio. È stato dimostrato che un’importante percentuale delle persone arrestate non hanno alcun vincolo con le maras. Oltre 90 persone sono morte nelle carceri in questi mesi e nessuna di loro aveva ricevuto una condanna da parte di un giudice. Reportage giornalistici hanno evidenziato che tante delle persone che oggi stanno sopravvivendo a stento nelle prigioni sono state arrestate solo perché i poliziotti hanno ritenuto che fossero troppo nervosi quando si sono avvicinati a loro.

Bukele ha scelto di mettere in scena ciò che voleva mostrare. Se mostrasse con la stessa eloquenza ciò che sta succedendo davvero nelle carceri, la percezione sarebbe completamente differente. Lo Stato di emergenza sta provocando la morte di anziani, operai, fattorini arrestati mentre consegnavano una pizza in qualche quartiere controllato dalle maras. Ma ciò che sta mostrando è altro: una produzione cinematografica propagandistica.

Come è possibile verificare oggi ciò che sta accadendo nelle prigioni salvadoregne?

In nessun modo. Nelle carceri è stato proibito l’accesso alle organizzazioni umanitarie internazionali e ai pastori evangelici. Non ci sono informazioni pubbliche sul numero dei detenuti per carcere, sugli indici di sovraffollamento. Uno dei tratti caratteristici del regime di Bukele è la chiusura comunicativa verso ciò che non si deve sapere. Se in termini di politica e sicurezza siamo a un passo dall’essere una dittatura, in termini di informazione pubblica lo siamo già.

Racconti un sistema di potere capillare che necessita di una struttura governativi solida e fedele. Quali sono le figure politiche che affiancano Bukele?

Bukele ha costruito il suo nucleo di potere intorno alla sua famiglia e ad alcuni amici intimi. I suoi due fratelli non hanno incarichi ufficiali ma hanno un’enorme influenza nel governo. Il presidente dell’assemblea legislativa è un amico fraterno. È una cupola famigliare di potere nazionale. Deputati e ministri sono lacchè con profili politici mediocri. Seguono gli ordini della cupola. Tra Bukele e i funzionari c’è però un anello di congiunzione: un gruppo di venezuelani che provengono dai gruppi di opposizione a Maduro. Sono legati a Leopoldo López e guidati da Sara Hannah. Entrarono in Salvador alcuni anni fa per offrire consulenze a Bukele in epoca di elezioni. Oggi stanno replicando qui le persecuzioni antidemocratiche che dicono di aver sofferto in Venezuela. Sono il secondo circolo di controllo del Paese: un potere occulto che gestisce i legami tra la famiglia Bukele e il resto dei funzionari.

Il giornalista e scrittore Oscar Martínez

Ti interpello come scrittore e giornalista: raccontare gli abusi del governo più popolare del continente è un atto doppiamente coraggioso. I risultati della repressione violenta delle maras hanno generato un mostro mediatico che si autoalimenta con facili consensi popolari, ignorando abusi di potere sistematici, ingiustizie giudiziarie e morti per mano dello Stato. In un contesto così respingente, quale credi che sia la ricetta migliore per narrare la realtà del Salvador oggi?

É una situazione complicata. Non ho intenzione di sfumarla: io scrivo per una società che mi detesta. È così. C’è un nucleo di lettori che legge i nostri reportage con criterio. Ma la maggior parte della popolazione salvadoregna è sommersa in un discorso di matrice religiosa: credono ciecamente in Bukele, e si negano a ricevere ogni tipo di informazione che metta in dubbio la loro fede politica.

Cosa bisogna fare? Innanzitutto, il giornalismo non può essere condizionato dai lettori e dalle loro credenze. Non è un concorso di popolarità. Come diceva Martín Caparrós, il giornalismo consiste nel raccontare alla gente ciò che non vuole sapere. Se dovessi fare una metafora, ti direi che ciò che facciamo è assimilabile alle onde che sfidano gli scogli. Lo scoglio non ha nessuna intenzione di smettere di essere scoglio. Solo onde solide e costanti possono eroderlo. Poco a poco, scalfiscono muri impenetrabili. Si tratta solo di continuare a fare giornalismo, documentando tutto al meglio, con la massima attenzione al dettaglio. In un momento come questo, un errore giornalistico avrebbe ricadute nefaste.