È la stessa B’Tselem a dirsi senza fiato, ad ammettere che all’inizio della sua ricerca sulle condizioni nelle carceri israeliane era convinta di trovare solo casi isolati, orribili ma isolati. Andando avanti con le interviste a ex prigionieri palestinesi detenuti in carceri diverse e con le rivelazioni di chi dentro ci ha lavorato, l’ong israeliana ha capito cosa aveva di fronte: «Tali spazi, in cui ogni singolo prigioniero è intenzionalmente condannato a un dolore e una sofferenza gravi e incessanti, operano di fatto come campi di tortura».

I risultati dell’inchiesta sono contenuti in un rapporto di 118 pagine, Welcome to hell. Il titolo glielo ha dato Fouad Hassan, 45 anni e cinque figli, di Nablus: «Stavamo andando a Megiddo. Quando siamo scesi dal bus un soldato ci ha detto: benvenuti all’inferno». Megiddo è una delle prigioni israeliane raccontate nel rapporto e dove, scrive B’Tselem, viene commesso in modo «diffuso, sistematico e prolungato il crimine di tortura».

Quello che l’ong ricostruisce non è la vendetta di un singolo soldato ma una politica deliberata dello stato e nello specifico del ministero della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir che aveva fatto – già prima del 7 ottobre – della radicalizzazione del sistema carcerario una priorità. Non una novità, spiega B’Tselem: è parte integrante del regime di apartheid israeliano, volto a minare – con le incarcerazioni di massa – le basi della fabbrica sociale palestinesi.

I numeri sono impressionanti: almeno 60 prigionieri deceduti in custodia per le botte, le torture e l’assenza di cure mediche; 9.263 detenuti dal 7 ottobre, il doppio di prima, tra loro palestinesi dei Territori occupati ma anche palestinesi cittadini israeliani; 4.781 in detenzione amministrativa senza processo né accuse.

Molti di coloro che sono stati rilasciati non hanno mai saputo perché ci fossero finiti: «Alcuni per aver espresso solidarietà alla sofferenza dei palestinesi; altri catturati a Gaza solo perché rientravano nella vaga definizione di “uomini in età da combattimento” – scrive B’Tselem – Altri perché sospettati, prove o meno, di sostenere gruppi armati…la sola cosa in comune: essere palestinesi».

Ma a impressionare di più sono i racconti degli abusi, testimonianze che hanno spinto B’Tselem a dire che «il centro di Sde Teiman non è che la punta dell’iceberg» e che si tratta di una «politica dichiarata delle autorità israeliane»: «È la definizione di campo di tortura: un posto in cui una volta entrato – non importa chi tu sia o perché sia stato arrestato – sarai sottoposto a una sofferenza senza fine».

Significa pestaggi, stupri con i manganelli, waterboarding ed elettrochoc, un piatto di riso crudo da dividere tra i 14 detenuti costretti in una cella, musica ad alto volume 24 ore su 24 fin quando le orecchie sanguinano, 191 giorni senza vedere il sole, morsa di cani, ossa rotte mai curate, le urla degli altri torturati.