È stata con ogni probabilità, quella di ieri, l’ultima festa dell’indipendenza del Brasile che lo ha visto come presidente e lui, Jair Messias Bolsonaro, ce l’ha messa tutta per sfruttare l’evento in chiave elettorale.

Né si è trattato di un 7 settembre qualsiasi, dal momento che ieri si celebrava niente di meno che il bicentenario dell’indipendenza del paese – benché di un’indipendenza «parziale» come da sempre sostiene la sinistra – e con tanto di parate militari, riapparse dopo due anni di sospensione causa Covid.

Per l’occasione Bolsonaro si è fatto persino prestare dal Portogallo il cuore attribuito al primo imperatore del Brasile, Dom Pedro I, esposto nel palazzo di Itamaraty fino ad oggi: «importazione costosa e necrofila» l’ha giustamente definita il domenicano Frei Betto.

La migliore opportunità possibile, dunque, per offrire una dimostrazione di forza a meno di un mese dal primo turno delle presidenziali e tentare così di accorciare la distanza (45% contro 32% secondo l’ultimo sondaggio Datafolha) che lo separa da Lula. Il quale, a sua volta, lo ha accusato di «trattare il 7 settembre come se fosse una cosa sua anziché una festa di 215 milioni di brasiliani».

È da giugno, peraltro, che il presidente si preparava per l’evento, invitando i suoi sostenitori a scendere in strada. E all’appello ha risposto, come sempre, il suo zoccolo duro, manifestando a favore del presidente con i soliti proclami: libertà, elezioni trasparenti, destituzione di tutti i giudici del Supremo Tribunale Federale, intervento dei militari.

In prima fila due settori specifici: agrobusiness e chiese evangeliche. Ma senza dimenticare gli agenti della polizia militare, i quali, nei loro gruppi whatsapp (monitorati dal giornale digitale Poder 360), si sono lasciati andare a evocazioni di «manganelli, proiettili e bombe» contro la sinistra e a minacce contro i giudici del Stf, «il cancro che corrode il Brasile».

È a questo zoccolo duro che a Brasilia, dopo la parata militare nella Esplanada dos Ministérios, Bolsonaro si è rivolto parlando di «Dio», «patria» e «famiglia» – nel quadro di una lotta tra il bene e il male (ovviamente rappresentato da Lula) – e soprattutto di una «patria maggioritariamente cristiana che non vuole la liberalizzazione delle droghe e la legalizzazione dell’aborto», «rispetta la proprietà privata», «non ammette l’ideologia di genere» e combatte le corruzione. Un riferimento, quest’ultimo, certo un po’ azzardato a fronte della recente rivelazione che la sua famiglia avrebbe acquistato negli ultimi 30 anni, integralmente o parzialmente, ben 51 immobili in contanti, senza chiarire la provenienza del denaro utilizzato.

Prima ancora, in un incontro con ministri, parlamentari e imprenditori, Bolsonaro si era anche spinto oltre: il bene vincerà il male come è avvenuto con il golpe del 1964, «la storia può ripetersi».
La musica non è cambiata neppure dopo l’arrivo di Bolsonaro a Rio de Janeiro, con la sua partecipazione a una «motociata» – un corteo di motociclette – dal centro di Rio fino a Copacabana, dove il presidente è atteso per il suo comizio elettorale (non ancora iniziato nel momento in cui scriviamo).