«Non è mai stato tanto facile scegliere», ha detto Lula sabato a São Paulo, nel suo discorso per il lancio ufficiale della sua candidatura. Quasi quattro anni sono passati dalla presunta «scelta molto difficile» – quella tra lui e Bolsonaro – di cui parlavano i mezzi di comunicazione in mano alle élite, alla vigilia delle elezioni del 2018, per poi aderire al fascismo bolsonarista.

MA DI FRONTE alla stessa alternativa di allora – Lula o Bolsonaro – a cui si ritroverà di fronte il prossimo ottobre la popolazione brasiliana, nessun dubbio è più ammissibile. Perché ora è evidente a tutti, ha sottolineato Lula, che la scelta è tra «la verità e le sette menzogne al giorno» raccontate dal presidente più bugiardo della storia brasiliana, tra «la tolleranza e l’oscurantismo», tra «la cultura e i fucili», tra «lo Stato del benessere sociale e lo Stato minimo, lo Stato che nega il minimo alla maggioranza della popolazione». Tra democrazia e la minaccia molto concreta di un golpe: da tempo Bolsonaro ripete di non fidarsi del sistema di voto elettronico, e si teme possa rifiutarsi di accettare un’eventuale sconfitta. Timore aggravato dall’allineamento con la posizione del presidente dei militari, che hanno presentato al Tribunale elettorale ben 88 critiche relative al sistema elettronico che riprendono le contestazioni di Bolsonaro.

Il biglietto da visita con cui si presenta Lula invece è l’eredità dei suoi governi, quella «crescita economica con inclusione sociale» di cui a ragione ha ricordato i successi, per quanto omettendone i limiti pur evidenti. «Il Brasile – ha detto – era diventato la sesta maggiore economia del pianeta e, allo stesso tempo, un riferimento mondiale nella lotta all’estrema povertà e alla fame». Tutti risultati vanificati dall’attuale governo, responsabile – tra infiniti altri passi indietro – del ritorno del paese nella «mappa della fame delle Nazioni unite da cui era uscito nel 2014 per la prima volta nella storia».

DINANZI AGLI ORRORI del governo Bolsonaro – dalla svendita delle imprese strategiche alla distruzione delle politiche pubbliche, dalla devastazione dell’ambiente fino alla perdita di prestigio internazionale – Lula promette il riscatto della sovranità del Brasile, la difesa del diritto a un’alimentazione di qualità, a un impiego dignitoso, al salario giusto, all’accesso alla salute e all’educazione. E, ancora, l’appoggio all’agricoltura familiare e ai piccoli produttori rurali (che i suoi precedenti governi avevano, sì, sostenuto, ma non tanto quanto l’onnipotente agribusiness), come pure il rilancio dell’integrazione latinoamericana e dei Brics e la lotta per una nuova governance globale. Non dimentica neppure la tutela delle foreste, a cominciare dall’Amazzonia, dei fiumi e della biodiversità, sebbene entro i rigidi paletti di un intoccabile modello estrattivista, come del resto aveva già chiarito nella recente intervista rilasciata al Time, quando aveva definito «irrealistico» pensare anche solo di limitarsi a sfruttare le riserve petrolifere già note. La sfida, per Lula, è piuttosto rilanciare la Petrobras come «grande impresa nazionale», sottraendola al controllo dei grandi azionisti stranieri, e fare di nuovo del Pré-Sal (gli enormi giacimenti petroliferi al largo delle coste brasiliane) «il nostro passaporto per il futuro, finanziando la salute, l’educazione e la scienza».

TUTTAVIA, AFFERMA, «la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile è una sfida planetaria» e, su questa via, c’è «molto da imparare dai popoli indigeni, guardiani ancestrali dell’ambiente», i quali «vedono i propri territori invasi illegalmente da garimpeiros, grileiros e madeireiros». Un’accusa, quella di Lula, che segue il disperato grido di allarme lanciato dall’Hutukara Associação Yanomami sui barbari crimini commessi dai garimpeiros contro la comunità Aracaçá in Roraima e tornati alla ribalta con la denuncia, alla fine di aprile, dello stupro e dell’assassinio di una 12enne yanomami in quella stessa comunità.