Brando Benifei: «Il nuovo Pd sarà di sinistra. Chi la pensa come Renzi andrà via»
Brando Benifei – Ansa
Politica

Brando Benifei: «Il nuovo Pd sarà di sinistra. Chi la pensa come Renzi andrà via»

Intervista Il capodelegazione a Bruxelles: «Una discussione aspra sull’identità è inevitabile. Altrimenti saremo un partito-minestrina, insapore. Su lavoro e fisco le ricette devono cambiare radicalmente. Ora parli la diplomazia, basta armi a Kiev»
Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 17 novembre 2022

Brando Benifei, capodelegazione del Pd al Parlamento europeo. Nel suo partito hanno deciso di anticipare il congresso. Le sembra una buona idea?

Il Pd deve ridefinire la sua identità. Siamo nati nel 2007 quando l’Italia era divisa in due dal fenomeno Berlusconi, non c’erano state tutte le crisi che abbiamo attraversato. La fase costituente richiede il tempo necessario: quello previsto, da qui a gennaio, è già piuttosto serrato. Serve una discussione vera sui nodi identitari, dal congresso non può uscire un partito-minestrina, insapore, dove tutti si vogliono bene perché non si discute davvero. Quello che ci univa nel 2007 non basta più. Di fronte a una destra ideologica al governo, la nostra gente ci chiede di saper fare la sinistra, alternativa sia al polo liberale che a quello grillino.

C’è una ipotesi di fare le primarie il 19 febbraio invece del 12 marzo.

Se si accorcia la fase finale del voto tra gli iscritti e delle primarie non è un problema. Quello che conta è fare bene il lavoro delle prossime settimane, aprire la fase costituente a chi sta fuori.

Nel 2007 si disse di voler unire i diversi riformismi. È una formula ancora valida?

In tutti i partiti socialisti europei c’è un pluralismo culturale. Il problema è fissare i cardini: per me sono il lavoro, l’emancipazione dal bisogno, i diritti e la democrazia.

Non sono gli stessi di 15 anni fa?

In questi anni abbiamo avuto pericolosi cedimenti sul tema del lavoro, penso al Jobs Act che non ha risolto il tema della precarietà e ci ha spinti ad inseguire idee degli anni 90, una sorta di flex-security senza sicurezza per i lavoratori; ma abbiamo anche sbagliato tagliando le province, il finanziamento pubblico ai partiti, il numero dei parlamentari. Abbiamo ceduto alla spinta antipolitica.

Pensa che oggi sia possibile trovare punti comuni?

Chi la pensa come Renzi su temi come il lavoro o il fisco, chi non vuole politiche vere di redistribuzione e ritiene che non si debba colpire la rendita a favore dei redditi da lavoro, forse dovrebbe chiedersi perché sta nel Pd. Lo stesso vale per chi ritiene che difendere i diritti dei migranti faccia perdere voti, come è si è visto col silenzio di Conte su Catania.

Vuole fare un repulisti?

Dico che bisogna fare chiarezza, distinguerci in modo chiaro dal terzo polo e dai 5 Stelle. Non c’è più spazio per elogiare acriticamente il Jobs Act, pensare di abolire tout court il reddito di cittadinanza o sostenere posizioni antipolitiche. Questo non significa voler cacciare qualcuno. Ma metto in conto che a qualcuno il nuovo Pd possa non piacere.

Crede davvero che nel suo partito abbiano voglia di fare una discussione così profonda? Non vede il rischio di una scissione?

Penso che possiamo essere ancora un partito largo, che sa fare sintesi. E tuttavia aggirare i problemi per garantire la pace interna sarebbe pericoloso: se ci limitiamo a cambiare il segretario lasciando tutto il resto così com’è, a partire dal gruppo dirigente, sarebbe un disastro, anche in termini di consensi. Non andremmo lontano. No, non è più il momento si stare nella comfort zone, bisogna prendersi il rischio di una discussione aspra.

Lei ha organizzato il 29 ottobre una iniziativa di giovani dem, «Coraggio Pd». In coro avete chiesto di azzerare tutto il gruppo dirigente. Vi hanno definiti i nuovi rottamatori.

Una formula in cui non mi ritrovo affatto. Quel termine fu usato da Renzi per cooptare i suoi amici e far fuori tutti gli altri. Noi diciamo che già ci sono forze nel Pd che si sono sperimentate sui territori e nelle battaglie per lavoro e ambiente. Il rinnovamento c’è già, non deve essere concesso dall’alto. Ma finora non ha fatto irruzione nel dibattito nazionale, dove parlano sempre gli stessi da 10 anni. Se vogliamo essere credibili non possiamo non sostituire i protagonisti, e anche le parole d’ordine.

Elly Schlein ha citato la vostra iniziativa nel discorso con cui si è iscritta al congresso Pd. La sosterrete in una eventuale corsa per la segreteria?

Ho molto apprezzato che abbia menzionato «Coraggio Pd», l’obiettivo di aprire all’esterno è comune. Sulle candidature ci esprimeremo al momento opportuno e ad oggi resta forte l’ipotesi di esprimere una nostra candidatura. Ma sono scelte che andranno fatte dopo aver sciolto i nodi di fondo.

La guerra sarà un tema decisivo per il nuovo Pd? Servono altri invii di armi a Kiev?

Nei mesi scorsi il sostegno militare si è rivelato necessario. Oggi non si può continuare ad inviare armi se non è chiaro cosa stiamo facendo. Questo è il momento in cui l’Europa deve fare fino in fondo il suo ruolo sul fronte diplomatico, senza farsi scavalcar dalla Turchia. Grandi potenze come Cina e India si stanno muovendo, non possiamo restare schiacciati sulle posizioni americane. E il Pd deve superare una postura troppo militare.

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