L’etichetta di persona non grata in Israele se la sono vista appiccicare in tanti negli anni. Nel 2022 è successo allo staff dell’allora commissaria Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet. Tre anni prima a Omar Shakir, all’epoca direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, espulso dal paese. Nel 2008 toccò a Richard Falk, giurista di fama internazionale che da relatore speciale dell’Onu per i Territori occupati tentava di raggiungere Gaza, due settimane prima dell’inizio dell’operazione «Piombo Fuso»: bloccato all’aeroporto di Tel Aviv.

E poi un numero imprecisato di attivisti internazionali, con quel denied entry sul passaporto divenuto l’incubo di chiunque voglia visitare la Palestina. Se è toccato all’Onu, perché non anche all’Unione europea: in lista, ufficiosamente, è finito l’alto rappresentante Ue agli affari esteri. Josep Borrell non è benvenuto in Israele.

A riportarlo, mercoledì, è stata l’Associated Press. Il motivo il solito: commenti ritenuti da Tel Aviv non appropriati, ovvero la condanna alle politiche israeliane nei Territori palestinesi occupati contenute in un articolo pubblicato la scorsa settimana su Project Syndicate in cui ha paragonato gli attacchi palestinesi alle violenze israeliane. «Essere onesti significa riconoscere che l’estremismo sta da entrambe le parti…Le operazioni militari israeliane di frequente causano la morte di civili palestinesi, spesso nell’impunità».

ALL’IRA A PAROLE del ministro degli esteri israeliano, Eli Cohen, è seguita la pratica espressa all’Ap da funzionari israeliani: «Non è messo al bando. Ma non pensiamo sia una buona idea che venga». Ovvero, hanno spiegato, al momento non è il benvenuto.

Borrell, che aveva fiutato l’aria, già martedì – in un intervento in cui definiva «illegali» le colonie in Cisgiordania e Gerusalemme est – aveva precisato che «questa non è un’affermazione anti-Israele». Aveva proseguito: «Le operazioni militari devono essere proporzionate e in linea con il diritto umanitario internazionale». In teoria non chiede la luna, chiede l’ovvio.

MA DI OVVIO qui non è rimasto granché. A dimostrarlo una nuova incursione israeliana, ieri, nel campo profughi di Jenin – roccaforte dei combattenti armati in Cisgiordania – che ha lasciato a terra quattro palestinesi tra cui un minore: Youssef Shreem, 29 anni; Nidal Khazim, 28; Omar Awadin, 16; e Louay Khalil Al-Zughair. Diciotto i feriti. Sale così a 85 (di cui 16 bambini) il numero di palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno, 14 gli israeliani. Immediata la reazione palestinese: la folla ha circondato l’auto su cui viaggiavano soldati sotto copertura. È dovuto intervenire l’esercito, l’ha rimorchiata con un blindato.

Mentre Jenin soffriva gli effetti della sua «nuova» quotidianità – incursioni sempre più frequenti e sanguinose – dall’altra parte del Muro decine di migliaia di israeliani proseguivano nella protesta contro la riforma della giustizia avanzata dal governo di ultradestra di Benyamin Netanyahu, dopo il rigetto, mercoledì, della proposta mossa dal presidente Herzog.

Una protesta per la democrazia, la parola che di più risuona negli slogan delle piazze, messa a rischio dalla fine dell’indipendenza della magistratura, già ampiamente violata dall’esistenza di due diversi sistemi giudiziari, civile e militare, destinati agli israeliani e ai palestinesi sotto occupazione.

A TEL AVIV i manifestanti hanno marciato sulle ambasciate diStati uniti e Regno unito e bloccato l’autostrada Ayalon. Cortei anche ad Haifa (porto bloccato da ex soldati) e Gerusalemme, dove una striscia rossa è stata disegnata sulla strada che conduce alla Corte suprema, simbolo – dicono i manifestanti – del legame tra indipendenza delle corti e libertà d’espressione. Scontri con la polizia e decine dli arresti in tutto il paese.