C’è un’altra guerra in corso, anche se al momento fuori dai riflettori: quella del governo Bolsonaro contro l’Amazzonia e i popoli indigeni. Gli ultimi dati dell’Inpe, l’Istituto di ricerche spaziali, non lasciano scampo: nel primo trimestre del 2022 la deforestazione è cresciuta del 64% in relazione allo stesso periodo del 2021, con la perdita di altri 941 km² di foresta. Un dato ancora più preoccupante considerando che si tratta dei mesi più piovosi dell’anno.

Ma è in tutti gli ultimi tre anni, quelli di Bolsonaro al comando, che per l’Amazzonia non c’è stata tregua, con un aumento della deforestazione del 56,6% e la cancellazione di 32.740 km² di vegetazione autoctona, sacrificata sull’altare degli interessi dall’agribusiness, del settore minerario e dell’industria del legname. E, come se non bastasse, sulla regione pesa la minaccia del progetto di legge, in discussione alla Camera, mirato a escludere il Mato Grosso dall’Amazzonia Legale, con cui la percentuale obbligatoria di preservazione della foresta nello stato cadrebbe dall’80% al 20%

A FARNE LE SPESE SONO, ovviamente, soprattutto i popoli indigeni, i quali sono confluiti a Brasilia, nella Esplanada dos Ministérios, proprio per denunciare il genocidio in corso, nel quadro della XVIII edizione dell’Acampamento Terra livre, dal 4 al 14 aprile: una mini città abitata da più di 6mila indigeni di oltre 170 diversi popoli originari, giunti nella capitale dopo un viaggio anche di tre giorni.

Quello che chiedono è la revoca del “Pacchetto della distruzione”, un insieme di progetti, attualmente in discussione al Senato, le cui conseguenze sui popoli indigeni e sugli ecosistemi da essi abitati sarebbero incalcolabili. Tra questi, il progetto di legge n. 490, relativo al cosiddetto “marco temporal”, la tesi, sostenuta a spada tratta da Bolsonaro, in base a cui avrebbero diritto alla terra solo gli indigeni in grado di dimostrare la loro presenza nell’area rivendicata alla data di promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre del 1988, come se tutto il violento processo della colonizzazione non avesse mai avuto luogo.

NON MENO CATASTROFICI sarebbero gli effetti del PL n. 191, che autorizza l’attività mineraria e la costruzione di centrali idroelettriche e di altre infrastrutture in aree indigene, anche in quelle in cui sono presenti popoli incontattati, la cui situazione, come denuncia Survival International, diventa sempre più critica.

Un’esigenza, quella dello sfruttamento delle terre dei popoli originari, espressa da Bolsonaro fin dalla sua campagna elettorale e rilanciata ora con rinnovato vigore grazie al pretesto della guerra in Ucraina e della conseguente necessità di ridurre la dipendenza dall’importazione dei fertilizzanti dalla Russia. «In breve – ha detto – rischiamo una scarsità di potassio o un aumento del suo prezzo». E quindi, essendo la regione del Rio Madeira ricca del prezioso minerale, perché non cominciare a sfruttarlo lì? Che l’area sia occupata da popoli originari non costituisce naturalmente alcun impedimento per il presidente, convinto che lo sviluppo del Brasile sia stato fin troppo sacrificato dall’«industria delle demarcazioni».

E sulla stessa linea si pone il programma lanciato da Bolsonaro in appoggio all’attività mineraria artigianale, nota come “garimpo”, destinato ad ampliare l’estrazione dell’oro in Amazzonia, tanto più sotto l’impulso dell’invasione russa dell’Ucraina, che già ha provocato un aumento del prezzo internazionale dell’oro.

MA AL “PACCHETTO della distruzione” appartiene anche il PL n. 6.299, a sua volta noto come “Pacchetto del veleno”, che mira a flessibilizzare ulteriormente la già rilassatissima legislazione sull’approvazione, importazione, produzione e utilizzo dei pesticidi. Se sotto il governo Bolsonaro, come ha denunciato il Movimento dei senza terra, si è già registrato un aumento record delle autorizzazioni dei prodotti chimici, alcuni dei quali estremamente tossici – oltre 1.500 quelli lanciati dall’inizio della sua amministrazione, 641 dei quali solo nel 2021 – con il nuovo provvedimento il settore risulterebbe totalmente deregolamentato.

Una piccola speranza di inversione di tendenza è tuttavia legata al pronunciamento della Corte suprema nel processo, iniziato il primo aprile, noto come “Pauta Verde” (agenda verde): un insieme di sette ricorsi presentati dinanzi alla Corte su questioni ambientali che potrebbe portare alla condanna dell’intera politica ambientale di Jair Bolsonaro.