Bettini, orecchie aperte per Roma
Alias Domenica

Bettini, orecchie aperte per Roma

Luca M. Patella, Rosa dice «a», 1966

Cultura classica Enciclopedico, complesso, sfaccettato: "Roma, città della parola" (Einaudi) di Maurizio Bettini è l’avvincente omaggio di un filologo all’oggetto del suo amore, a partire dal rapporto dialettico oralità/scrittura

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 luglio 2022

«In poesia non ci sono misteri da svelare, c’è solo da leggere, anzi da ascoltare, possibilmente con orecchie ben aperte». Questo enunciato, chiaro e diretto come è nello stile del suo autore Maurizio Bettini, rappresenta efficacemente lo spirito del libro in cui si trova.
Roma, città della parola Oralità Memoria Diritto Religione Poesia (Einaudi «Saggi», pp. 410, euro 29,00) è innanzitutto un saggio corposo e documentato, nuovo e stimolante, dedicato all’oralità nella cultura romana. Un aspetto, questo, troppo facilmente derubricato come ‘arcaico’. Un tratto dato addirittura per scontato da chi rievochi stancamente qualche ricordo manualistico della letteratura latina delle origini.

Chi abbia frequentato un buon liceo o sostenuto un serio esame universitario di latino non avrà forse dimenticato quanta attenzione era riservata al ‘suono’ in testi come i carmina o le leggi delle XII tavole; gli potrà venire in mente l’enniano O Tite tute Tati, paradigma immancabile di quel tratto stilistico – spesso criticato e mal compreso – che è l’insistita allitterazione; ricorderà magari qualcosa in merito alle diverse interpretazioni del difficilissimo verso saturnio. Eppure, come spesso accade per le cose apparentemente ‘ovvie’, all’oralità, ovvero all’importanza, al ruolo e alla funzione della parola parlata nella cultura latina non era stata riservata finora tutta l’attenzione necessaria, quanto meno non in maniera sistematica e senz’altro non con uno sguardo a un tempo così eclettico e così puntuale.

Sul versante greco, dopo gli studi di Milman Parry sulla formularità omerica e grazie al magistero di Luigi Enrico Rossi e alla sua scuola, vi è da tempo in Italia la diffusa consapevolezza che l’Iliade e l’Odissea giunte sino a noi vadano intese come un ‘documento di oralità’, ovvero come testi scritti che mantengono tracce evidenti della loro composizione orale e della loro fruizione aurale. Per quanto riguarda il mondo romano, una simile consapevolezza diffusa manca del tutto, come scarsa è la conoscenza stessa dei prodotti culturali delle origini, che al contrario sono rimasti spesso al margine anche dei più recenti studi specialistici e la cui rilevanza molto raramente è emersa in saggi che ambissero a un’ampia diffusione. La cospicua presenza di frammenti e testi arcaici, per di più non esclusivamente poetici, proposti, spiegati e interpretati con acume e competenza e illuminati dal rapporto con l’ampio contesto culturale in cui sono stati composti, è pertanto uno degli elementi di maggiore merito di questo volume di Bettini, impegnato ormai da tempo in attività di alta divulgazione scientifica e letto ben oltre i confini del settore.

Il libro nasce dalla rielaborazione in forma scritta delle prestigiose Sather Lectures che l’autore è stato invitato a tenere a Berkeley nell’anno accademico 2017/2018 intorno al tema City of the Spoken World. Orality and the Foundation of Roman Culture, nonché di successivi seminari presentati presso la Scuola Normale Superiore di Parigi. Questa originaria composizione e fruizione orale, ricordata nella prefazione, lascia la sua traccia nella gradevolezza del dettato, che è opportunamente favorita dalla scelta editoriale di collocare l’apparato delle note in fondo al volume: pur nella sua complessità, il libro si legge tutto d’un fiato, e alla fine viene voglia di rileggere, studiare e approfondire singoli argomenti. Il percorso si snoda attraverso quattordici capitoli, utilmente suddivisi in paragrafi che danno struttura senza minare l’armonia e la continuità delle argomentazioni. Utili e pensate soprattutto per il lettore più esperto, corredano il volume le sei appendici critiche su altrettanti argomenti puntuali, oltre alle ricche note, alla bibliografia e a un indice dei nomi.

Sin dalle prime pagine si respira il profumo ambizioso di una ‘enciclopedia’ della parola antica, al cui ‘ascolto’, ontologicamente impossibile, l’autore si accosta con tutti gli strumenti in suo possesso e con la creativa duttilità di una tecnica poliedrica affinata nel tempo. Il rapporto dialettico tra oralità e scrittura è indagato prima a tutto tondo come fenomeno culturale e in quanto tale legato alla costruzione della memoria, ma anche ad aspetti di religione, vita quotidiana e folclore: tutti temi cari all’autore, che vi ha dedicato gran parte della sua produzione scientifica e – mi piace ricordarlo – li aveva inseriti già qualche decennio fa nelle schede di approfondimento del suo fortunato manuale di letteratura latina per le scuole secondarie.

Se l’intreccio continuo dei piani rappresentati dalle cinque parole del sottotitolo (oralità, memoria, diritto, religione e poesia) rende avvincente la lettura e conferma la rilevanza del punto di vista e la pervasività dell’oggetto di studio, l’autore sembra lasciare a chi legge la possibilità di crearsi un proprio percorso all’interno del libro e di assecondare così le proprie inclinazioni e i propri interessi. Vi troverà sollecitazioni lo studioso di diritto, stimolato a ragionare sulle dinamiche di alternanza – diacronica ma anche sincronica – tra oralità e scrittura, tra l’autorevolezza del giurista e la necessaria adattabilità delle leggi ai contesti in trasformazione. Avranno molto da riflettere l’antropologo e lo studioso di religioni antiche, spinti a mettere in discussione le basi culturali di riferimento e a tentare di ricreare un difficile punto di vista interno in un campo di osservazione perduto. E troveranno grandi stimoli il filologo e il linguista, invitati a recuperare il senso profondo di singole parole e di testi complessi e a ricollocarli in un contesto di cui proprio le parole e i testi costituiscono ormai l’unica traccia rimasta.

Con la libertà concessa al lettore, mi soffermo ora più da vicino su alcune sezioni del libro relative ad aspetti che sento più congeniali e che mi sembrano particolarmente significativi.

Se la via di accesso al mondo antico è soprattutto, quando non soltanto, costituita dalle parole che compongono i testi giunti fino a noi, è evidente che grandissima attenzione debba essere dedicata alla lingua, al suo lessico e alla sua sintassi. Così avviene in molte pagine di questo volume, in cui diverse osservazioni di carattere semantico e storico-linguistico sono dedicate alla famiglia lessicale del fari, il complesso e ricchissimo verbo del ‘dire’. Dal fatum, il «destino parola», ovvero quella parola ‘determinante’ pronunciata dalla divinità, si passa ai Fata, plurale dello stesso termine che finisce per indicare direttamente il nome delle divinità coinvolte (alternativo a Parcae), nelle fonti letterarie ed epigrafiche più spesso femminili (le Fatae, che irresistibilmente fanno pensare alle ‘fate’ delle fiabe) che non maschili (i Fati, pure attestato). C’è poi la fabula, ovvero il ‘racconto’: questa parola è formata combinando la radice di fari con un suffisso –bula che si trova in pochissimi termini (subula, la lesina dei calzolai; fibula, la fibbia; mandibula, la mandibola; tribulatribulum, la trebbia), tutti accomunati dall’essere strumenti utili a compiere l’azione espressa dalla radice (rispettivamente cucire, piantare, masticare e trebbiare) e tutti dotati di punte o denti. E allora anche la fabula potrà essere intesa come uno «strumento che agisce in profondità sul proprio oggetto», «come un racconto che fissa/cuce queste res, mentre in qualche modo le macina, modificandole».

Ancora più interessante risulta l’esplorazione del complesso concetto di fas (un monosillabo, come curiosamente accade a principî importanti della cultura latina: mos, lex, ius), inteso tradizionalmente come ‘legge divina’ in opposizione alla lex umana. Analizzando le occorrenze, Bettini lo interpreta invece più in generale come l’espressione di una forma di lecito o illecito, giusto o ingiusto operante sia nel mondo umano che in quello divino e si sofferma sulla caratteristica morfologica più evidente di questo termine, ovvero la sua indeclinabilità. Fas (con il suo derivato nefas), infatti, è l’unico nome della lingua latina del tutto privo di casi obliqui. Non avendo un genitivo, né un dativo, né un ablativo, questo termine non può essere messo in relazione con altro. E se esistono pochi passi in cui ricorre al vocativo e poche locuzioni in cui è all’accusativo preceduto da preposizione nel senso di ‘contro il fas’, per il resto lo si trova quasi esclusivamente al nominativo nella formula fas est. Questo significa che ha quasi sempre la funzione di predicativo e precisa se una cosa è oppure non è fas: «è un sigillo, un timbro, che si imprime sui comportamenti o sugli avvenimenti appellandosi a un principio che dovremmo cercare di individuare». La lingua, esplorata con gli strumenti dell’analisi semantica e della sintassi dei casi, è davvero rivelatrice del mondo in cui è parlata e ascoltata.
Un orecchio particolare e allenato, capace di «sintonizzarsi su una lunghezza d’onda diversa» è richiesto per comprendere il senso della poesia delle origini, al cui ‘spazio sonoro’ è dedicato lo stimolante ultimo capitolo. L’analisi metrico-stilistica di alcuni saturni di Livio Andronico e senari di Plauto mette in luce i tre elementi principali che concorrono alla costruzione del linguaggio poetico: il messaggio, la metrica quantitativa e l’armonia fonica. Il lavoro del poeta arcaico consisteva nel creare una perfetta sinergia tra queste tre istanze e quindi nel comunicare un messaggio escludendo le parole più semplici in favore di altre che rispettassero le necessità della metrica e del suono. È soprattutto l’armonia fonica, peculiare di questa esperienza poetica orale, che Bettini mette in evidenza. La metrica quantitativa della poesia arcaica è «a maglie larghe»; pur compensando con alcune norme che regolano la fine delle parole soprattutto nell’ultima parte del verso (quella più influenzata dall’orizzonte di attesa dell’ascoltatore), essa permette una serie numerosa di possibilità effettive (qualche migliaio per un senario giambico) e quindi la sua regolarità risulta ridotta. La ripetizione dei suoni, allora, diventa necessaria anche per dare struttura ai versi, che vengono caratterizzati da tutta una serie di accorgimenti. Allitterazioni, echi, vocali raddoppiate, sillabe ricorrenti creano una tessitura sonora che è parte così fondante del processo compositivo da rendere superflua la domanda sull’intenzionalità di alcuni richiami.

Da questa combinazione di elementi esce fuori come una melodia nascosta, una «voce risultante». Bettini prende in prestito questo concetto dall’etnomusicologia: l’esecuzione musicale dà voce a suoni non scritti, che risultano solo quando un brano viene eseguito. Questo potrebbe creare veri e propri testi ulteriori dotati di senso, pure non esclusi da parte degli studiosi di antichità (a partire da Ferdinand de Saussure, di cui Bettini recupera alcuni scritti inediti su armonia fonica e anagrammi nascosti), ma non sembra essere questa la funzione della ‘voce risultante’ dei versi arcaici. L’effetto qui è piuttosto quello di conferire autorevolezza al dettato e di creare uno scarto rispetto alla semplice prosa. La melodia nascosta è, di fatto, l’ingrediente segreto della poesia. Lo conferma alla fine del volume l’epigramma di Valerio Edituo, tra gli ultimi documenti di un’oralità complessa, qui messa al servizio di un messaggio di ispirazione greca.

Enciclopedico, complesso e sfaccettato, questo libro è l’omaggio di un filologo (etimologicamente, di un amante della parola) all’oggetto del suo amore. Grammatica, antropologia, letteratura, storia della filologia, linguistica e glottologia, storia del diritto, metrica e prosodia: mettendo insieme le sue competenze e la sua esperienza Maurizio Bettini dà prova della sua idea di filologia. Il tema, peraltro, lo facilita. Cercare echi o tracce di un passato irripetibile è in fondo figura perfetta della ricerca stessa: accostarsi con le orecchie ben tese, provare a distinguere i suoni, ascoltare il silenzio e accettare il limite.

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